Niente dedica, Sarajevo “dimentica” l’atleta-eroe
BELGRADO. Nel 1992, ad assedio di Sarajevo ormai iniziato, non ci pensò un attimo a difendere un vicino di casa, un anziano dottore bosgnacco, dal criminale di guerra Veselin Vlahovic “Batko”, detto «il mostro di Grbavica». Per questo pagò con la vita. Ma ancora oggi, a Sarajevo, non è stato ritenuto degno di intitolare col proprio nome un nuovo palasport: una decisione che sta causando profondo risentimento in città. Il palazzetto dello sport, nel quartiere di Novo Sarajevo, non sarà dunque dedicato a Goran Cengić, nato nel 1946 in una famiglia mista, morto ammazzato il 14 giugno 1992, da eroe civile. Lo ha deciso la locale municipalità, che ha preferito chiamare la struttura con il più freddo “Novo Sarajevo” rigettando le petizioni di esponenti della società civile, intellettuali, diversi partiti politici.
Ma chi era, Cengić? Per capirne la statura morale, aiuta la sua biografia pubblicata dell’Ong Gariwo. Al tempo della Jugoslavia, Cengić fu uno dei più apprezzati campioni nazionali di pallamano, cresciuto in una famiglia «di profondi ideali antifascisti», il padre Ferid primo sindaco della Sarajevo del dopoguerra, un’altra èra rispetto a quella dell’assedio. Assedio che Goran visse, per poco, «nella parte occupata» dai serbo-bosniaci. Lì trovò la morte, perché ebbe il coraggio di reagire alla violenza. Quando il “mostro” arrivò per portare via Husnija Cerimagic, Goran reagì gridando all’assassino «Cosa fai? Non vedi che è malato?», parandosi davanti a uomini armati. Sia lui, sia Cerimagić furono trascinati via e uccisi: i corpi vennero ritrovati anni dopo.
Forse una maniera per tenere viva la memoria di Cengić sarebbe stata quella di dedicargli il palasport di Novo Sarajevo. Non accadrà, ha stabilito il consiglio municipale optando per “Novo Sarajevo”. Il motivo? Nessuna dietrologia: meglio un nome sterile in questo caso, aveva spiegato in primavera la commissione responsabile della toponomastica.
Spiegazioni che non hanno convinto in molti, compresi intellettuali e attivisti locali che hanno suggerito che i politici, in tutta la Bosnia, conservano il potere perché sfruttano gli odi interetnici. E Cengić, sicuramente, è una figura che non aiuta a mantenere accesi i tizzoni dell’odio.
Concorda Svetlana Broz, numero uno di Gariwo in Bosnia, nipote di Tito. «Ci sono chiare ragioni politiche» dietro tutto ciò, spiega a Il Piccolo. «Goran non è il nome» tipico «di un membro» del gruppo etnico al potere in quel municipio, quello bosgnacco. E chi governa in Bosnia, serbi, croati o musulmani che siano, «rifiuta di offrire tributi a persone che hanno sacrificato la loro vita oltre le barriere interetniche o di religione», perché «sfruttano il gioco sporco del nazionalismo». Si tratta di una «continuazione della politica dell’élite politica bosgnacca a Sarajevo: rafforzare il nazionalismo», usando «come modelli quello croato e quello serbo», le fa eco il giornalista Predrag Blagovcanin, che aveva scritto che Cengić è sgradito perché «non serbo, non croato, né bosgnacco, ma un essere umano». E «meraviglioso», aggiunge Broz.
Cengić non è l’unico esempio di questo tipo di politica. Si ricordi, suggerisce Blagovcanin, anche la dedica a Mustafa Busuladzić, simpatizzante nazista e ustascia durante la guerra, di una scuola elementare a Sarajevo. È «tragico che Sarajevo sia gestita da persone che, alla denominazione Radovan Karadzić di un dormitorio scolastico a Pale», decisa l’anno scorso, rispondono «rifiutando di dare il nome Cengić» a una struttura sportiva a Sarajevo.
Ma c’è anche chi non ci sta. Ignoti hanno scritto con vernice spray «Dvorana Goran Cengić» sulle vetrate dell’arena. A ribellarsi sono stati anche quattro partiti d’opposizione - Nasa stranka, il Partito socialdemocratico bosniaco, Fronte democratico e il Gradjanski savez - che hanno annunciato la richiesta di un referendum per consultare i cittadini di Novo Sarajevo. Nel frattempo, il nome di Cengić circola. E più lo fa, meglio sarà per il futuro di Sarajevo e della Bosnia tutta.
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