Nevicata del secolo, i lettori del Piccolo la ricordano così

Francesco Bercic
Un uomo attraversa la strada completamente innevata in piazza della Libertà durante l’inverno del 1985
Un uomo attraversa la strada completamente innevata in piazza della Libertà durante l’inverno del 1985

In slitta giù per via San Michele, qualcuno direttamente con gli sci. La corrente elettrica che va e non va, i cumuli di fanghiglia sparpagliati agli angoli delle strade e «i gabbiani che camminano sul mare gelato». E poi, soprattutto, le scuole (quasi tutte) chiuse, gli ospedali deserti, i tanti disagi che però non riescono a scalfire un generale clima di euforia. Il Piccolo ha chiesto ai lettori di raccontare la «nevicata del secolo», quei cinque giorni del gennaio 1985 che ricoprirono di bianco l’Italia intera e che ora colorano i ricordi di centinaia di triestini (sul nostro sito trovate tutte le testimonianze).

 

Le risposte sono arrivate in massa, offrendo ognuna una angolatura diversa, ma con uno stesso spirito di leggerezza e nostalgia. Mescolando le cronache d’allora alle memorie personali di oggi, è possibile tornare con la mente a quarant’anni fa, per cercare di cogliere almeno alla lontana quell’entusiasmo inimmaginabile da chi non l’ha vissuto. Entusiasmo spesso molto concreto, visto che fra le confessioni più condivise spicca per distacco la possibilità di assentarsi da scuola o da lavoro per qualche giorno.

Monfalcone: il filmato d’epoca:

 

https://youtu.be/FpwthtdbR-I?si=fjBYG2YRq3ya1q4t

 

«Per noi ragazzi voleva dire stare a casa da scuola per giocare a palle di neve con gli altri», scrive ad esempio Cinzia Ravalico: «Divertirsi a fare pupazzi di neve, mettersi dei cartoni sotto il sedere e scivolare giù da via da Ponte come se fossimo sulla Gran Risa». Cinzia rimpiange «la spensieratezza di quell’età in cui ci si divertiva a giocare», concludendo con un «bei tempi» che immaginiamo accompagnato da un felice sospiro.

Non tutti furono però fortunati come Cinzia. «Ero a scuola, ginnasio Dante, era sempre tutto più bianco, eppure non ci fecero uscire prima, né chiusero la scuola. Fu una vera avventura tornare a casa», ricorda Paola Bonatti Cacciapaglia. In effetti le cronache del Piccolo le danno ragione. La prima neve, salutata senza troppo stupore, scende domenica 13 gennaio. Ma basta un giorno per capire che non sarà una precipitazione come le altre: il 15 gennaio il titolo in prima pagina annuncia la «bufera su Trieste» e il giorno dopo ancora il «ghiaccio e pantano nelle vie della città». Neanche giovedì 17 il meteo accenna a placarsi – «Di giorno si sguazza e di notte rigela» è il titolo – mentre solo venerdì si può declamare «alla fine l’ha avuta vinta il sole», pur ricordando «le cicatrici lasciate dalla neve».

Le scuole perciò vanno prima in ordine sparso, poi sono costrette a chiudere i battenti. Anche perché le difficoltà sono banalmente pratiche: «Ricordo la lunga camminata, dopo che hanno chiuso la scuola a metà mattina causa neve. A piedi da Campi Elisi fino in Via Flavia all’altezza dell’Obi, in quel punto un buon uomo ha avuto compassione e mi ha dato un passaggio fino a Muggia», dice Barbara. Così il senso di libertà dato dall’inaspettata vacanza può trasformarsi nella tenacia di chi, alla neve, non vuole proprio darla vinta. «Ricordo benissimo. Non ho mancato un giorno di lavoro perché abitando in zona Rive potevo andarci tranquillamente a piedi o con i bus che in città giravano con le catene», confida Silvia Del Bene. Più fatica ha sofferto chi abitava in Carso, come Josa Jerman, che all’epoca aveva sette anni ed era residente ad Aurisina. «Eravamo senza corrente e mio papà è andato a comprare una stufa a legna per scaldarci!», scrive auspicando «di rivedere un inverno simile».

Gioie e dolori che raggiungevano pure gli ospedali. A Cattinara c’era Robby Michelazzi: «Infermiere al pronto soccorso, turno di mattina e non si è visto nessuno per diverse ore. Mezzi pubblici in difficoltà, ambulanze dirottate al Maggiore». Al Burlo, il ricordo di Paola Fragiacomo è tra i più dolci: «Io ero incinta ed è stato difficile arrivare da Altura». —

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