«Nessuna estorsione, operai consenzienti»
Associazione a delinquere, estorsione, minaccia nei confronti dei lavoratori bengalesi? Se illeciti o anomalie ci sono stati, sono piuttosto riconducibili al sistema dell’appalto e del subappalto, stretto nella logica al ribasso. Insomma, tutti sapevano e tutti si adeguavano. Quella di ieri, nell’ex sala Assise del Tribunale di Gorizia, è stata un’udienza-maratona con le arringhe dei difensori che hanno monopolizzato la giornata, nell’ambito del processo sul caporalato. Alla fine, a ridosso delle 19, a fronte della conclusione dell’arringa da parte dell’avvocato Roberto Corbo, il Collegio giudicante ha deciso di rinviare l’udienza per garantire l’intervento del legale Giovanni Iacono, difensore di Alessandro Rispoli, assieme alle repliche e alla sentenza. L’udienza è stata fissata il 4 giugno. I tre legali susseguitisi davanti al Collegio giudicante presieduto da Francesca Clocchiatti (a latere Russo e Rozze), hanno sviscerato ogni particolare, dando, ciascuno nei rispettivi ruoli difensivi, una lettura diversa della realtà e delle dinamiche all’interno dello stabilimento di Panzano.
L’avvocato Mariarosa Platania, passando al setaccio i capi d’imputazione a carico del proprio assistito, l’operaio bengalese Amin Ruhul, ritenuto dalla pubblica accusa quale “trait d’union” tra i Commentale e i connazionali, ha confutato tutto. A partire dall’associazione a delinquere: «In questo processo - ha esordito - non sono emersi elementi tali da dimostrare che Amin fosse legato a un vincolo associativo delinquenziale. Ha invece aiutato molti connazionali a trovare lavoro, com’è emerso anche nel dibattimento. Era solo un operaio che si occupava di coibentazione». E ancora l’estorsione: «Ciò presuppone - ha aggiunto Platania - un ingiusto profitto: ma è stato dimostrato che Amin abbia preso soldi? Da quando è stato arrestato, ha perso il lavoro, unico reddito in famiglia. Ha anche subito lo sfratto, e suo figlio ha dovuto lasciare l’università». Ha rilanciato: «Non ha ricevuto alcun ordine sotto la minaccia di licenziamento: nessuno è mai stato licenziato». Quanto al «clima vessatorio», ha obiettato: «Erano le proteste dei bengalesi, anche piuttosto animate, a farsi avanti nei confronti di chi gestiva le paghe, non di competenza di Amin. Veniva loro spiegato: “pagheremo, siamo in difficoltà”». Ha riferito di operai che andavano 2 mesi in ferie per raggiungere il Bangladesh: «Legittimo - ha sostanzialmente osservato - ma mi si dica se questo è sfruttamento». E il loro ricorso ai sindacati «era una libera scelta». Ha puntato quindi sull’«acquisizione delle querele da un paio di testi resisi poi irreperibili, non garantendo, come prevede l’articolo 111 della Costituzione, la possibilità di replica al mio assistito». Ha fatto riferimento ad altri due testi che, «pur presenti al processo poichè costituitisi parte civile, si sono sottratti al dibattimento». Dubbi anche sulle traduzioni rese in aula. L’avvocato Paolo Marchiori, difensore di Pasquale Commentale, ha impiegato quasi 3 ore per rivisitare tutti i verbali del processo. Ha anche criticato alcune scelte del presidente del Collegio, chiedendo che vengano messe in discussione. E ha sottolineato: «Pasquale non era minaccioso, ascoltava gli operai». Il suo ragionamento è stato sostanzialmente di questo tenore: «Non c’era un datore di lavoro che imponeva di lavorare sotto minaccia, e se non c’è minaccia non c’è neppure estorsione». Il legale ha poi ricordato: «Sono mancati due protagonisti, Sait e Fincantieri, che questo Tribunale ha ritenuto non dovessero entrare nel procedimento». Marchiori ha insistito sulla difficoltà economica delle ditte, a fronte di contratti di subappalto estremamente ridotti: «Qui s’è voluto cercare il mostro. La comunità bengalese rappresenta a Monfalcone anche una forza contrattuale e ciò non collide con la posizione dominante del datore di lavoro». L’avvocato Roberto Corbo, difensore di Angelo, Giuseppe Commentale e Anna De Simone, ha definito il cantiere di Panzano «una bolgia dantesca»: «Chiunque è entrato sa che da 15 anni a questa parte esiste un “patto scellerato” condiviso tra le parti. Erano gli stessi bengalesi a volere la paga globale, a loro conveniva. Un sistema che ha sfornato fallimenti, come per le aziende Commentale. Giunti al punto di non ritorno finanziario, i bengalesi si sono rivolti ai sindacati, anzichè impugnare il contratto di appalto tra Sait e l’azienda Commentale per farsi così assumere direttamente dalla Sait. L’appalto tra Sait e la ditta Commentale è da considerarsi nullo, poichè frutto di mera intermediazione di lavoro, vietata dalla legge».
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