Nessun rischio radiazioni al Burlo di Trieste
TRIESTE Qualcuno guardava con sospetto gli orologi che non funzionavano, come se le lancette fossero mosse da chissà quale forza oscura. Altri immaginavano la presenza di sostanze pericolose abbandonate nei sotterranei. Dicerie, si direbbe oggi, che andavano a riempire la ricca letteratura sui presunti tumori tra il personale del Burlo. E c’era chi puntava il dito sulla Ferriera, che si trova non troppo lontano. Ma non erano chiacchiere da bar o, se lo erano, uscivano dalla bocca di medici e infermieri. Una psicosi che questo studio dovrebbe, una volta per tutte, dissipare: all’ospedale infantile non c’è nulla di tossico. Non ci si ammala di cancro. Non più che altrove.
È stata l’assessore regionale Maria Sandra Telesca a ordinare un monitoraggio epidemiologico sull’istituto, affidandolo a una Commissione tecnica diretta dal professor Fabio Barbone dell’Università di Udine e dal dottor Diego Serraino del Cro di Aviano. Tutto era partito dai dubbi su un potenziale rischio radioattivo causato dalla presenza di un irradiatore nel piano interrato. Il 18 marzo 2015 lo strumento aveva evidenziato dati anomali nei controlli delle emissioni. Circostanza, questa, che aveva riacceso la paura di malattie. Ecco cosa dice, testualmente, l’esito dell’indagine: «I dipendenti del Burlo non sono stati esposti in passato e non sono sottoposti attualmente a un rischio radioattivo maggiore rispetto al resto della popolazione locale». Tutto nella norma. «Non vi sono evidenze che al Burlo vi siano state esposizioni lavorative che abbiano determinato un aumento del rischio tumorale nei lavoratori», precisa il report.
La questione era già stata oggetto di studio anni fa ma non è bastata a tranquillizzare. Qualcuno, come si ricorderà, ha anche preparato una sorta di “lista” di chi, negli ultimi trent’anni, si era ammalato di cancro. Si è andati a memoria, ma con tanto di nomi e cognomi. Uno scenario inquietante, con decine e decine di persone, tra medici e infermieri, colpite da varie forme tumorali. Tutto ciò ha spinto la Regione a vederci chiaro. I risultati della ricerca sono stati illustrati ieri ai dipendenti.
L’indagine è partita il 19 giugno 2015 con l’acquisizione dei documenti relativi ai controlli ambientali periodici effettuati sull’irradiatore e nelle vicinanze delle stesso. Sono stati esaminati i dati rilevati nel periodo di installazione, nel 1990, fino al giugno 2015. L’équipe ha quindi setacciato gli elenchi dei dipendenti che hanno lavorato nei pressi dello strumento dal 1990 e in Pediatria d’urgenza, che sta al piano superiore rispetto a dove è posizionato l’irradiatore. I ricercatori hanno analizzato, sotto il profilo storico, la salute di chi è stato potenzialmente esposto, acquisendo i dati di sorveglianza sanitaria disponibili al Burlo ed effettuando un’analisi sulla frequenza dei tumori tra i lavoratori. Tutto ciò è stato incrociato con le banche dati regionali, in particolare con il Registro tumori del Fvg.
«Tutti i dati dosimetrici - si legge nel report della commissione - hanno mostrato valori inferiori al limite di sicurezza». Per quanto riguarda l’episodio del 18 marzo, la Commissione non evidenzia pericoli. Un’ulteriore parte dello studio ha riguardato, infine, il potenziale rischio di tumore: è stata analizzata la storia sanitaria dei 133 dipendenti (24 uomini e 109 donne) che hanno lavorato nelle vicinanze dell’irradiatore e al piano superiore a partire dal ’95. Rispetto a questa popolazione, sono stati rilevati 12 casi di cancro.
Malattie che non evidenziano, nel complesso, un valore significativamente diverso da quello nella popolazione generale. Un altro approfondimento sulle neoplasie nel periodo 2010-2014, ha rilevato che, nello stesso gruppo considerato, vi siano stati tra «1 e 2 casi di tumore del colon in più rispetto all’atteso tra donne infermiere». Ma ancora una volta, recita il report conclusivo, la differenza rilevata non è significativa rispetto alla popolazione generale. I dati, basati su piccoli numeri, ristretti a un tumore come il colon-retto causato principalmente da fattori alimentari, sovrappeso e inattività, portano a concludere che «non vi sono evidenze che all’Irccs vi siano state esposizioni lavorative che abbiano determinato un aumento del rischio tra i dipendenti».
Riproduzione riservata © Il Piccolo