Nei bunker nascosti della Guerra fredda

Fino a non molti anni fa era attivo un sistema difensivo per arginare l’avanzata delle truppe del Patto di Varsavia. Sono centinaia le fortificazioni segrete costruite fra gli anni Cinquanta e Sessanta sul Carso
GORIZIA
Sono seminascosti della vegetazione, anche se ormai non hanno più bisogno di mimetizzarsi. Le casamatte di acciaio scolorite dal tempo spuntano come enormi e improbabili funghi fra i cespugli di sommaco, mentre poco più in là botole arruginite e saldate rendono impossibile ogni accesso. Le coperture mimetiche in vetroresina che simulano carsici cumuli di pietre giacciono spostate o ribaltate, con i telai di ferro a vista, simili ai vecchi carri di un carnevale ormai passato. Davanti a una delle porte d’acceso ai bunker, grossa e robusta come l’entrata di un caveau, un recente cartello con il segnale di pericolo avverte: ”Opera militare non attiva”.


Siamo alle pendici del Monte sei Busi, ad alcune centinaia di metri dalla strada secondaria che porta a Doberdò del Lago, assieme a una squadra di speleologi composta da Maurizio Tavagnutti e Franco Bressan del Centro ricerche carsiche Seppenhofer, Luca Tringali del gruppo speleo Talpe del Carso, Giorgio De Iuri degli Amici del Fante e Maurizio Radacich del Club alpinistico triestino. Da decenni le squadre speleo della Venezia Giulia battono l’intero territorio carsico per esplorare e censire tanto grotte naturali quanto cavità artificiali, e le recenti notizie relative all’esistenza di vasti sistemi ipogei legati ai tempi della Guerra Fredda, ai misteri di Gladio e ad eventuali associazioni paramilitari ha risvegliato l’interesse per le installazioni sotterranee realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta utilizzando in parte strutture della Grande Guerra: un vasto reticolo di bunker e camminamenti la cui esatta estensione e mappatura è conosciuta solo ai militari.




Dal Monte sei Busi al Monte di Ronchi, nell’area tra Doberdò e la Crosara e su fino a Gradina, e ancora da Gradisca fino al Calvario e alle Valli del Natisone lungo un’estensione di oltre venti chilometri si sviluppa un sistema di fortini sotterranei attivi fino a non molti anni fa e oggi - tranne poche eccezioni - rigorosamente sigillate con porte d’acciaio e doppie saldature, interne ed esterne.


È la Linea Maginot dell’isontino, centinaia di bunker e casamatte disseminate a macchia di leopardo secondo un disegno strategico studiato per frenare l’avanzata del nemico, costringerlo a passaggi obbligati, fare da perno di manovra per le unità mobili di difesa. Lungo questo fortilizio diffuso e occultato, passava la ”soglia di Gorizia”, la prima barriera contro un’ipotetica invasione da Est da parte delle truppe del Patto di Varsavia, il primo sgambetto ai Tartari in corsa per la conquista dell’odiato Occidente una volta abbandonata Trieste al suo destino.


A guardarle oggi, queste fortificazioni, a gettare un’occhiata indiscreta dentro le torrette e giù per gli stretti corridoi di cemento, sembra impossibile che un tempo nemmeno troppo lontano - anzi vicinissimo - migliaia di uomini dei reparti di fanteria d’arresto (i battaglioni ”Ardanza”, ”Alpi”, ”Umbria”, ”Cagliari”, ”Lombardia”, ”Pontida”, ”Fornovo”) si addestravano e si tenevano pronti a fronteggiare l’invasione, come in una gigantesca Fortezza Bastiani sparpagliata lungo la frontiera. In pochi anni il fiume della Storia ha preso ben altra direzione, dissolvendo ogni fantasma della Guerra Fredda, e oggi le fortificazioni sono lì con i loro blandi segreti a ricordare un’era ormai passata.


Le fortificazioni erano sostanzialmente di due tipi, c’erano i presidi permanenti con casermette e distaccamenti di guardia, e i bunker non presidiati ma regolarmente ispezionati e sottoposti a manutenzione. Questi ultimi si riconoscono facilmente: si trovano vicino alle strade o in prossimità di ponti, sono baracche di legno o metallo, a volte camuffate da magazzini dell’Anas, dipinte di verde militare, o grigio o marrone, che mascheravano cannoni e carri armati. Poi le casamatte dei bunker, nascoste da finti covoni o falsi cumuli di pietra realizzati in vetroresina. Le armi schierate contemplavano un variegatio catalogo: cannoni anticarro, mitragliatrici pesanti e antiaeree, mitragliatrici leggere per la difesa ravvicinata, mortai e bazooka.


Con la caduta del Muro di Berlino la Maginot isontina ha perso di colpo ogni funzione. I suoi camminamenti, le gallerie sotterranee, le feritoie buie affacciate sui sentieri dove oggi passeggiano famigliole in escursione, la lunga teoria di cupole d’acciaio arruginite sono lo scheletro di un drago morto che non ha mai sputato fuoco.


Per la sua complessità e la valenza storica il sistema difensivo meriterebbe forse una fruizione almeno in parte pubblica. «Se davvero non ci sono strani segreti da tutelare, chiederemo al demanio militare le mappe dei percorsi sotterranei e se possibile l’accesso a questo sistema dismesso», dicono gli speleologi, consapevoli del loro ruolo di pattuglie esplorative al servizio della Storia, ora che la Storia è andata ad alzare muri e difese da qualche altra parte nel mondo.


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