Né farmaci né droga nel corpo di Liliana: il giallo di Trieste resta ancora avvolto nel mistero
da overdose di medicinali o sostanze. La Procura: «Le indagini proseguono»
TRIESTE Nemmeno l’esame tossicologico risolve il giallo della morte di Liliana Resinovich. Non lo avevano risolto l’autopsia e neppure la Tac, da cui non erano emersi segni di violenza né lesioni. E ora punto a capo pure sui test chimici: gli accertamenti biologici hanno escluso che la donna, scomparsa il 14 dicembre e trovata il 5 gennaio nel bosco dell’ex Ospedale psichiatrico, possa aver ingerito sostanze di qualsiasi tipo, come farmaci o droghe.
Lo scrive la Procura di Trieste, che martedì mattina ha diffuso un comunicato stampa ufficiale. «Al fine di determinare le cause della morte di Liliana Resinovich sono state effettuate analisi tossicologiche per la ricerca di droghe, sia di tipo immunochimico su sangue e urine, sia di tipo cromatografico in spettrometria di massa tandem per tutte le altre matrici biologiche. Le analisi tossicologiche immunochimiche di screening hanno dato esito negativo».
Nulla dunque dai prelievi su sangue e urine. Ma gli specialisti sono andati a fondo, sondando centinaia di possibili sostanze in grado di determinare la morte o comunque uno stato di incoscienza, compresi gli psicofarmaci o altre sostanze psicoattive. Ma niente. C’era peraltro il sospetto che Lilly potesse aver ingerito i medicinali che il marito Sebastiano Visintin utilizza per la sua ipertensione e per i problemi di aritmia. Nulla nemmeno su questo.
In laboratorio è stato appurato soltanto ciò che Liliana aveva assunto nelle ore prima del decesso, si presume a colazione: sono state trovate caffeina e teobromina (presente ad esempio nel cacao e nelle foglie di tè) e uvette. Rinvenuta pure la presenza di multivitaminici. Sono inoltre emerse tracce di un’aspirina e di una tachipirina nelle urine. Ma niente che possa uccidere una persona o, almeno, stordirla.
«Le determinazioni tossicologiche sulle diverse matrici biologiche consegnate al laboratorio non dimostrano assunzione di sostanze xenobiotiche (estranee all’organismo, ndr), droghe e farmaci – conclude la nota – che possano aver cagionato il decesso né concentrazioni che possano aver concorso a uno stato psicofisico alterato incosciente».
Il quadro investigativo «non è mutato», chiosa la Procura. Ciò significa che non si sa ancora di cosa è morta la donna. Né se si è uccisa o se c’è la mano di un assassino, sebbene le indagini al momento appaiano più orientate al suicidio.
L’assenza di sostanze nel corpo sposta nuovamente l’attenzione su quei sacchetti di plastica in cui Lilly aveva avvolta la testa: se non ha subìto alcuna forma di intossicazione, significa che è deceduta per soffocamento? In mancanza di segni di violenza sul cadavere, potrebbe essere questa l’ipotesi. Ciò che si sa è che quei sacchetti erano legati al collo con un cordino, anche se non stretti completamente. Si tratta di una morte per asfissia? Ma perché allora questo non è stato accertato con chiarezza dall’autopsia, che parla genericamente di uno «scompenso cardiaco acuto»? L’esame non è riuscito a rilevare negli organi tracce di una eventuale sofferenza respiratoria?
L’inchiesta della Squadra mobile e della Polizia scientifica prosegue. «Credo che nel giro di un mese potremo avere un quadro completo e che le indagini possano essere concluse», commenta il procuratore Antonio De Nicolo. «Al momento non ritengono di poter aggiungere altro».
L’ultimo tassello mancante è l’esito completo dell’esame del Dna sugli oggetti rinvenuti addosso e accanto al corpo di Liliana. Stando a quanto trapelato finora, c’era il suo Dna dappertutto e in grande quantità: sui sacchi neri in cui era infilata, sui sacchetti di nylon che le avvolgevano la testa e sul cordino che legava gli involucri alla gola. Circostanza, questa, che avvalora la tesi del suicidio: Lilly avrebbe maneggiato quegli oggetti prima di morire. Sugli oggetti ci sarebbe anche del Dna che non appartiene a lei, ma potrebbe trattarsi di contaminazioni.
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