Nazary: «In Afghanistan cancellati 20 anni di vita. È come se fossi ancora lì, il dolore viene a prendermi»

La testimonianza del 34enne che gestisce una pizzeria per asporto a Trieste, dopo essere fuggito giovanissimo dal suo Paese: «Ho una sorella con due figli: che ne sarà di loro?»

Linda Caglioni

TRIESTE Tre notti di fila senza riuscire a prendere sonno, trascorse immobile sul divano, a fissare le immagini in diretta mondiale di un Paese, l’Afghanistan, cedere chilometro dopo chilometro alla logica della devastazione. «Lo choc è stato talmente forte che per qualche giorno non ho neanche trovato le forze di venire a lavorare – racconta David Nazary, afgano di 34 anni, che gestisce insieme al fratello Yonous una pizzeria d’asporto nel centro di Trieste -. Quando le prime notizie sono arrivate abbiamo continuato a seguire in diretta i servizi della Bbc per capire quello che stava succedendo. Non ci sembrava vero, non trovavamo le parole per descriverlo».

Insieme a loro, con gli occhi incollati allo schermo, c’era anche la madre Maryam, che diversi anni fa è riuscita a raggiungere i figli in Italia attraverso il canale del ricongiungimento famigliare. «A causa di un ictus mia mamma a volte fa confusione tra i luoghi. Così, quando ha iniziato a vedere le immagini del suo Paese in mano ai talebani era convinta di essere ancora là. Ha abbassato la testa e se l’è nascosta sotto lo chador. Poi mi ha chiesto “sono già arrivati qui?”. Aveva paura che i talebani fossero a casa nostra».

Originario della provincia di Parven, Afghanistan centrale, David se n’è andato di casa quando aveva 17 anni, e ci è tornato solo raramente, l’ultima volta risale al 2006. È arrivato in Italia attraverso un viaggio accidentato fatto di botte e di respingimenti, quando ancora il flusso migratorio era un fenomeno poco conosciuto. Metà della sua vita l’ha trascorsa a Trieste, ma ora che l’ombra del regime talebano si è ricompattata in tutta la sua violenza, è come se la sua linea del tempo avesse compiuto un ampio balzo indietro, al 2001, quando le minacce a cui sfuggire erano attuali quanto lo sono in queste ore.

«Se adesso qualcuno mi chiedesse da quanto tempo mi trovo qui, risponderei “cinque giorni soltanto” – racconta David, che appartiene alla minoranza hazara, un gruppo etnico che da anni è vittima di persecuzioni -. Quello che sta succedendo ha bruciato tutto ciò che era stato portato avanti in quasi 20 anni. È come se quel tempo fosse andato buttato, dove è andato a finire? È una cosa incredibile, che nessuno di noi si sarebbe mai potuto immaginare. Tutto è crollato da un momento all’altro, dalla mattina alla sera».

La speranza che si trattasse di exploit guerresco destinato a restare circoscritto alle aree più delicate del Paese è svanita in poco tempo. Presto ci si è rassegnati all’evidenza della storia, e la necessità primaria è diventata una sola: stabilire un contatto diretto e continuo con i famigliari rimasti là, gente che in questi anni ha creduto per davvero che una via d’uscita sotto l’egida occidentale fosse possibile.

Tra i parenti di David, anche un cugino che è riuscito a mettersi in salvo grazie a una collaborazione con un’associazione americana. «Si è salvato lui, ma di tutte le altre migliaia di persone, cosa sarà? Evacuare tutti non sarà possibile, di sicuro non entro il 31 agosto (deadline entro cui i militari statunitensi dovranno ritirarsi dal Paese, ndr). Mia sorella Ruqia ha due figli di 14 e 20 anni, e la preoccupazione più grande è per loro. Mio zio, per esempio, dice che non gli importa che ammazzino lui, che ormai è vecchio. Ma teme per i suoi ragazzi, per sua figlia. Si chiede cosa gli succederebbe se la prendessero - prosegue Nazary -, ed è questa paura che gli impedisce di tentare la fuga verso il confine».

Aver collaborato fianco a fianco con le forze occidentali, tuttavia, non offre a tutti le stesse garanzie. Al contrario, qualche volta può rappresentare un passato scomodo, da nascondere. «Un altro mio cugino ha lavorato nell’ambito umanitario per il disinnesco delle mine. Non ha avuto il permesso di andarsene e ora teme di essere considerato una spia da parte del regime dei talebani».

Oltre al tempo annullato, anche le distanze fisiche, secondo David, sono svanite nel nulla a causa del nitore del dramma: «Vivo le cose come se fossi là - conclude il giovane uomo -. Anche se sono lontano chilometri e chilometri, il dolore mi viene a prendere».

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