Natale 2020 e l’ospite che non vogliamo:nessuno al riparo da nulla

Oltre alle norme da rispettare, c’è un personale rapporto con la malattia. E per chi ci è passato la consapevolezza diversa: che diventa un augurio

TRIESTE Buon Natale. Non è la prima volta che si celebra la Natività avendo a che fare con restrizioni da coprifuoco, vigilanze armate, difficoltà economiche, emergenze sanitarie, lutti da contabilità di guerra. Ma è forse la prima volta che questa situazione si verifica su scala planetaria, non risparmiando nessuno, ma proprio nessuno, dei circa sette miliardi di persone che popolano il nostro fragile pianeta. In tempi in cui gli abbracci sono vietati, questo sembra davvero essere l’unico, possibile, grande abbraccio.

Restando negli orizzonti che ci riguardano più da vicino, il Natale si affronta in un groviglio di norme di sicurezza in cui non è facile orientarsi. 



Ma c’è qualcosa che non può essere regolato da norme governative di nessun genere, ed è il personale rapporto, l’esclusiva e individuale relazione che ciascuno di noi può instaurare con il Covid. Tale corrispondenza non può essere disciplinata, anche se è proprio da questa relazione che discende il comportamento di ciascuno, in un ampio ventaglio di espressioni che vanno dalla paura al menefreghismo.

Chi ci è passato lo sa. Chi è stato catapultato nella grande onda dei contagiati e in qualche modo ne è venuto fuori schivando il peggio, ha maturato un’idea piuttosto precisa di cosa significhi convivere con un’entità biologica, un parassita che abita il proprio corpo e ne dispone in modo imprevedibile, decidendo a piacimento cosa fare in una gamma di possibilità comprese fra la totale o quasi assenza di sintomi fino agli esiti da terapia intensiva e a quelli più irreversibili e tragici. Leggere sulla risposta al tampone la parola “positivo” significa trovarsi di punto in bianco in una situazione da film tipo “No Man’s Land”: è come stare seduti su una mina sbalzante che, i medici mettono in guardia, può saltare da un momento all’altro. È allora che si instaura un rapporto diretto con quell’esserino invisibile e mutante, talmente piccolo e arcaico che nelle sue infinite forme se ne va in giro da prima dell’origine della vita stessa sulla Terra. È un rapporto che cambia il modo di percepire la quotidianità. Non è solo la solitudine da quarantena, il dover vivere isolato da chiunque. Non è solo l’atto pratico del naufrago costretto a dipendere in tutto e per tutto da ciò che sta fuori. Non è solo fare i conti - per esempio - con il runner che lascia i sacchetti della spesa tre piani più sotto, o il dover rinunciare all’elementare prossimità degli affetti più cari. È piuttosto l’avere a che fare con un ospite indesiderato e pericoloso che non se ne va, ospite inatteso che condiziona gesti e respiri. E con il quale quasi quasi verrebbe voglia di fare amicizia, perché più conosci il nemico e meglio lo puoi sconfiggere, mentre l’unico conforto è sapere che là fuori tanta gente lavora e rischia anche per te.

Quando poi l’odioso finalmente se ne va - se e quando succede -, il sollievo è relativo. Diventare una sorta d’eroico mutante virtuoso - «sono guarito, non posso contagiare né essere contagiato!» - non mette, in realtà, al riparo da niente.

È la lezione che lascia il personale rapporto con il Covid. Una consapevolezza che è forse il modo migliore per vivere e augurare a chiunque un buon Natale. —
 

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