Mostar dimentica il sacrificio degli inviati Rai

Sedici anni dopo quel tragico pomeriggio del 28 gennaio 1994, Mostar sembra aver dimenticato un dramma che Trieste non dimentica: la morte dei tre inviati Rai - Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D'Angelo -, uccisi da una granata mentre realizzavano un servizio giornalistico sui bambini vittime della guerra balcanica. Di quelle tre vittime a Mostar nessuno sembra avere più memoria
MOSTAR.
“Excuse me, I’m looking for the place where the italian journalist Marco Luchetta was killed in 1994… can you make me see the place?”: esattamente 16 anni dopo quel tragico pomeriggio del 28 gennaio 1994, Mostar sembra aver relegato nell’oblio un dramma che Trieste non dimentica: la fondazione intitolata a Luchetta, Ota e D’Angelo che si occupa di bambini che hanno vissuto gli orrori della guerra nei Balcani, il premio giornalistico dedicato ai tre inviati e il ricordo personale dei parenti, dei colleghi e degli amici sono tasselli indelebili di una memoria che il tempo non solo non offusca, ma al contrario consolida.


Mostar invece ha cancellato e risalire al luogo fisico in cui in pochi istanti una granata spazzò via tre vite, è un’impresa: la domanda deve essere ripetuta decine di volte. Chiedendo informazioni nei piccoli negozi che si affacciano lungo le stradine di Mostar est, qualcuno allarga le mani, qualcun altro si fa ripetere la domanda e poi fa cenno di no con la testa, altri spariscono nel retrobottega per girare a un amico o a un parente la richiesta, un altro ancora simula uno sforzo di memoria, quasi che il nome gli dicesse qualcosa, ma il risultato è sempre quello, nessuno sa indicare il punto dell’esplosione.


Anche un poliziotto liquida con un frettoloso “ne razumi” la domanda e solo dopo un’infruttuosa battuta quasi a tappeto della zona, il commesso di una gioielleria indica un lungo condominio di sei piani che si trova proprio di fronte al negozio: “Behind this side”, dietro a questa facciata, aggiunge facendo con le dita un gesto come un piccolo salto. La sera di Mostar allunga le sue gelide ombre nel cortile interno: subito a sinistra a fianco della scala che porta all’atrio del caseggiato, una lapide rettangolare ricorda quel giorno e il nome delle tre vittime “che con coraggio e amore” cercavano di testimoniare il dramma della guerra.


La preghiera del mohezim diffusa dagli altoparlanti installati sul minareto riempiono l’aria di un lamento lontano, mentre i primi fiocchi di neve iniziano a scendere lenti conferendo al contesto un’atmosfera quasi surreale. “Italijanski…”, sussurra una signora salendo la breve rampa di scale, ma rifiutando con fermezza qualsiasi contatto, quasi che quel ricordo potesse in qualche modo rinfocolare il dolore. Chi non si sottrae a ricostruire quegli attimi è Alija Behram, all’epoca giornalista di radio Mostar che proprio in quella palazzina aveva la redazione e oggi direttore di RTM, la radio televisione di Mostar: “Eravamo usciti perché nel sotterraneo dove si trovavano circa 80 persone di cui decine di bambini, la luce del faretto della telecamera di Ota si stava esaurendo e il cortile protetto dal condominio di sei piani sembrava un posto sicuro”.

Sono le 15, la troupe con gli interpreti Vesna e Efendich e il piccolo Zlatko si addossa quanto più possibile al muro, Marco sta porgendo il microfono a Zlatko quando una granata, sparata verso l’alto dalla zona ovest della città o dalle alture che circondano


Mostar, supera il tetto della casa e ricade esplodendo nel cortile a un metro dal gruppetto. “Marco dead at the moment”, Marco è morto all’istante, bisbiglia Behram, mentre interminabili istanti di silenzio calano nel piccolo, dignitoso ufficio dove stiamo raccogliendo la sua testimonianza. Gli sguardi convergono verso il basso quasi a cercare quel tempo per fargli cambiare corso. Oggi Mostar è alle prese con una difficile e disordinata, quasi anarchica ricostruzione: accanto a impressionanti ruderi che lasciano intravedere ancora mobilie abbandonate in fretta, o a pochi metri da case sventrate dalla furia delle granate, sorgono rari palazzoni a vetrate e pochi centri commerciali tipicamente occidentali in un guazzabuglio di stili che riflette l’inquietudine di una terra tormentata.


Le case che non sono crollate durante la guerra portano tracce evidenti di sventagliate di mitra e di schegge di granata, mentre sotto alla cenere cova ancora il focolaio mortifero dell’odio interetnico e dell’intolleranza religiosa: mani ignote hanno cancellato con bombolette spray i caratteri cirillici di alcuni cartelli stradali, la stessa parola “fratellanza” usata nell’iscrizione della lapide che ricorda Luchetta, Ota e D’Angelo è stata coperta, ma non resa del tutto illeggibile, con vernice nera. Si respira povertà e una monetina da 2 euro allungata a un ragazzino che chiede un aiuto, scatena una gioia incontenibile. Il cartone d’imballaggio abbandonato diventa un ambitissimo bob per quattro bambini che si lanciano da una piccola altura come se quello fosse il divertimento più bello del mondo.


Dopo il lutto e il dolore della morte, oggi la guerra presenta ai sopravvissuti la seconda tranche del conto, quella della ripresa, aggravata in Bosnia Erzegovina dalla recessione globale e a Mostar in particolare da una complessa e delicata situazione amministrativa di stallo istituzionale. In questo contesto si inserisce la cappa di oblio calato su quel pomeriggio di 16 anni fa che invece noi qui non dimenticheremo mai.

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