Morto sotto i ferri: invertite le cannule della macchina

La perizia sull’intervento costato la vita a Franco Geromet avvenuto nella sala operatoria di Cardiologia a Cattinara
Medici in sala operatoria
Medici in sala operatoria

Edema cerebrale e polmonare acuto causato dall’inversione del collegamento delle cannule ai tubi del circuito della circolazione extracorporea con una conseguente riduzione del flusso circolatorio sistemico e una severa ipotensione arteriosa.

Sono queste le cause della morte di Franco Geromet, 48 anni, originario di Staranzano, morto il 18 agosto dello scorso anno nella sala operatoria di Cardiochirurgia di Cattinara. Avrebbe dovuto effettuare un intervento di applicazione di un by-pass aorto coronarico. Ma qualcosa, nella fase preliminare dell'operazione definita di routine, è andato per il verso sbagliato.

«Morto sotto i ferri, omicidio colposo»
Medici in una sala operatoria

Lo scrivono a chiare lettere Maurizio Rubino, viceprimario del reparto di Cardiochirurgia di Padova e l’anestesista, pure padovano, Eugenio Serra, i due consulenti tecnici d’ufficio nominati dal gip Giorgio Nicoli. Nei giorni scorsi gli esperti hanno depositato la perizia che era stata richiesta dal pm Matteo Tripani e disposta, nella forma dell’incidente probatorio, dal gip Nicoli. L’udienza è stata fissata per il prossimo 5 maggio.

Per quanto avvenuto in sala operatoria a Cattinara sono indagati i componenti dell'intera équipe della Cardiochirugia. Si tratta dei chirurghi Elisabetta Rauber e Alessandro Moncada, dell’anestesista Enrico Michelone, dei tecnici Elena Maghet, Jadranka Jankovic e Francesco Sasso. Per tutti l’accusa ipotizzata è omicidio colposo. Sono rispettivamente difesi dagli avvocati Claudio Vergine, Alfredo Antonini, Sergio Cecovini, Luca Maria Ferrucci, Marta Silano e Alfonso Senatore.

Gli esperti, rispondendo, allo specifico quesito del giudice, ricostruiscono quanto è avvenuto in sala operatoria evidenziando vari elementi. Il primo è quello dei ruoli nell’èquipe: «Spetta all’ infermiera strumentista la divisione del circuito e la corretta identificazione inequivocabile dei due poli, arterioso e venoso. Tutte le dichiarazioni concordano sul fatto che sia stata la strumentista (ndr, Elena Maghet) a dividere il circuito eliminando il filtro insieme ai markers identificativi sul campo operatorio senza porre in atto misure alternative sufficienti a mantenerne l’identificabilità. Questo primo passaggio è stata la causa del successivo concaternarsi di eventi».

I due consulenti non si limitano però solo a dettagliare il ruolo di una figura secondaria dell’èquipe. Si legge: «Per prevenire l’errore, a chiunque spetti la responsabilità di dividere il circuito, deve sempre essere in grado, durante tutta la fase prodromica alla connessione macchina-paziente, di identificare inequivocabilmente la natura dei due tubi, arterioso e venoso». Come dire: bisognava controllare e prevenire.

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Chirurghi al lavoro in sala operatoria

Ma c’è di più. «La misura della saturazione venosa mista avrebbe portato - scrivono gli esperti - al sospetto e forse riconoscimento del problema, ma probabilmente in fase tardiva. Sappiamo invece che il perfusionista (ndr, Francesco Sasso) ha subito individuato e segnalato i problemi di scarso ritorno venoso e di difficoltà a mantenere un adeguato flusso di circolazione extracorporea». I due consulenti, nella loro corposa relazione, osservano anche che la macchina cuore-polmoni «era ben funzionante al punto che è stata successivamente impiegata, senza necessità di revisione, in altri interventi cardiochirurgici ad esito positivo e successivi al caso in questione».

Inoltre nella perizia si parla anche dell’anestesista Enrico Michelone: «Per quanto riguarda il suo comportamento - scrivono - non si rileva nulla da eccepire. In particolare si è potuta verificare, dall’esame degli atti, l’attenzione e la precisione di tutto l’iter anestesiologico sia nelle fasi preparatorie all’intervento sia nelle misure adottate dopo l’inizio dei problemi in circolazione extracorporea quando si è trovato a far fronte ad una gravissima riduzione della pressione arteriosa sistemica e della saturimetria cerebrale che hanno polarizzato la sua attenzione, essendo di primaria importanza nel garantire la sopravvivenza del paziente. L’anestesista si è quindi adoperato a somministrare ossigeno alla concentrazione massima possibile, a somministrare i farmaci più indicati e infondere sangue e liquidi necessari nel tentativo di ristorare la pressione arteriosa sistemica e quindi la saturazione cerebrale». Si accenna anche al ruolo dell’infermiera di sala (ndr, Jadranka Jankovic) e di altri presenti che non sono indagati: «nulla potevano per prevenire ed identificare i problemi sopravvenuti. Essi hanno poi svolto le loro mansioni in maniera consona alla situazione».

Ma c’è un ultimo elemento di valutazione complessivo: «Nel team - scrivono i consulenti - vi deve essere piena collaborazione e comunicazione; deve esserci un rapporto fiduciario fra i componenti. Ogni membro comunque dovrebbe sempre controllare il proprio operato e quello degli altri».

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