Morì travolto dal voltafieno all’aeroporto di Gorizia, il pm chiede 3 anni per padre e figlio
GORIZIA Un infortunio sul lavoro dal drammatico esito letale; per la difesa, invece, è stato un incidente imprevedibile. Si può concentrare in questo “dualismo” inconciliabile il filo conduttore che ha caratterizzato la discussione finale affrontata ieri mattina in aula, al Tribunale di Gorizia, davanti al giudice monocratico Concetta Bonasia.
Si tratta del processo in relazione alla morte del cittadino sloveno Milovan Stevanovic, 68 anni, che nel novembre del 2015 fu colpito dai “denti” della macchina voltafieno sulla quale stava operando Saverio Humar, ora imputato per omicidio colposo, assieme al figlio Devid, che è anche rappresentante legale del Centro Zootecnico Goriziano, cooperativa di Savogna d’Isonzo, a sua volta chiamata a rispondere in qualità di persona giuridica, ai fini della responsabilità degli enti.
Quel pomeriggio di novembre, nell’area dell’aeroporto Duca d’Aosta, Saverio Humar aveva avviato il motore del trattore con il giunto cardanico inserito nel voltafieno che s’era attivato, vicino si trovava il 68enne venendone travolto.
È stata una lunga discussione, durata almeno tre ore. Per la pubblica accusa, il vice pretore onorario Gianluca Brizzi ha richiesto la condanna di padre e figlio alla pena di 3 anni, per la società 300 quote da 300 euro, del valore complessivo di 105 mila euro. Le parti civili, rappresentate dagli avvocati Stefano Tigani, per il figlio e due nipoti della vittima, e Marco Mizzon, a nome della vedova, assieme alla condanna alla pena di giustizia, hanno richiesto risarcimenti per circa 872 mila euro complessivi. Tigani ha richiesto comunque una provvisionale, quindi da stabilire in sede penale in caso di condanna, di 200 mila euro.
Il difensore, avvocato Dario Obizzi, ha quindi richiesto le assoluzioni per i due imputati, con le formule perché il fatto non costituisce reato per Saverio Humar, e per non aver commesso il fatto nei confronti del figlio Devid. Il collega avvocato Andrea Finizio si è espresso di conseguenza per la non sussistenza della responsabilità del Centro Zootecnico, a fronte, in subordine di un risarcimento contenuto.
Il vpo ha posto l’accento sul fatto che, attraverso le testimonianze dibattimentali, «non ci sono dubbi» sui fatti oggetto di imputazione. E l’attività di Stevanovich, ha rilevato, «mai regolarizzata, rappresentava comunque una prestazione professionale continuata». Quel giorno nell’area dell’aeroporto indossava guanti e abbigliamento da lavoro. Ha parlato di «negligenza» riferendosi a Saverio Humar, il quale, accesa la motrice, non si era accorto della presenza del 68enne vicino al voltafieno in azione.
«L’evento mortale è accaduto» e seppure la cooperativa era una piccola impresa familiare «il dipendente doveva essere tutelato». Articolate le arringhe di parte civile. «È stato un infortunio sul lavoro», ha su tutto sottolineato l’avvocato Tigani, sulla scorta del fatto che «veniva chiamato più o meno casualmente, faceva di tutto, secondo le necessità», ha aggiunto richiamandosi alla tenuta da lavoro che portava anche quel giorno. Ha fornito una propria ricostruzione circa i motivi per cui la vittima s’era incontrata con Saverio, mutuando una testimonianza resa in dibattimento.
Con l’avvocato Mizzon a ribadire il concetto: «È sufficiente che i due lavoratori abbiano operato per conto dell’azienda su un macchinario pericoloso e non a norma, perché si configuri la responsabilità penale degli imputati. Si tratta a tutti gli effetti di un infortunio sul lavoro», come «è sufficiente il fatto che Saverio abbia acceso il motore con il giunto cardanico inserito».
Dalle difese è stata rappresentata una vicenda diversa. L’avvocato Obizzi ha infatti insistito su un ruolo di tutt’altro genere, ricoperto da Stevanovich, che «arrivava al Centro zootecnico per prelevare letame». Dunque, «non era un dipendente», o comunque un prestatore d’opera per la cooperativa. E quanto accaduto è stato «un incidente dovuto a un comportamento, da parte di Stevanovich, non prevedibile, né evitabile». Infine, l’avvocato Finizio: «Ritengo che non vi siano i presupposti per provare la responsabilità dell’ente», ha affermato ripetendo che «Stevanovich era un conoscente, un amico, non un lavoratore». E «la sua condotta era stata imprudente».
Riproduzione riservata © Il Piccolo