Monfalcone, il paziente morì, risarcimento da 600mila euro
L’uomo, 79 anni, ricoverato al San Polo per una sincope aveva subito un’occlusione intestinale. L’Aas va in Appello
Altran Monfalcone-15.07.2011 Ospedale S.Polo-Monfalcone-Foto di Katia Bonaventura
Era stato ricoverato all’ospedale di Monfalcone a causa di una sincope e policontusioni da caduta. L’uomo, Duilio Mininel, allora 79enne di Staranzano, affetto da pluripatologie, tra cui il morbo di Parkinson, circa due mesi dopo era deceduto per uno choc settico, una setticimia dovuta a un’occlusione intestinale. Il ricovero in ospedale risale il 19 dicembre 2006. La morte il 28 febbraio 2007. E a distanza di una decina di anni, il Tribunale civile di Gorizia, presso il quale i familiari del congiunto si sono rivolti, ha sancito la condanna nei confronti dell’Azienda sanitaria Isontino Bassa Friulana. L’ammontare della somma stabilita dal giudice monocratico Antonio Sette, è di circa 600mila euro. Si tratta di 163.990 euro da versare rispettivamente alla vedova, G.T., 86 anni, e ai due figli, S.M., 63, A.M.M., 55, comprensiva della rivalutazione monetaria, da luglio 2014 alla data della sentenza, pronunciata il 17 luglio di quest’anno, degli interessi e delle spese legali.
Alla base del procedimento c’era la verifica circa il comportamento assunto dai sanitari che avevano preso in cura il paziente. Un anziano cagionevole, in virtù dell’addizionarsi nel tempo di problematiche, fino al Parkinson ad accentuare la delicatezza dello stato di salute.
Due consulenti tecnici d’ufficio hanno “sondato” cause ed effetti, al fine di verificare eventuali omissioni riconducibili al decesso del 79enne.
La prima perizia, a carattere preventivo, a monte cioè della chiamata in giudizio, affidata al Ctu Aldo Somma, aveva confermato una serie di responsabilità da parte dei sanitari.
In sostanza, il decesso del congiunto era attribuibile a «negligenza» e a interventi «tardivi» proprio rispetto alla possibilità di sopravvivenza del paziente. Di fatto una «diagnosi ritardata» sulle complicazioni insorte, anche a fronte dell’esposizione ai rischi legati al fragile stato di salute del paziente affetto da patologie pregresse e dal morbo di Parkinson in particolare. La «negligenza» veniva attribuita al «deficit di attenzione nel dare il giusto valore» agli esiti delle analisi di laboratorio eseguite sul paziente, oltre ad una «mancata sollecitudine» a richiedere ulteriori accertamenti specifici che avrebbero permesso di rilevare «con maggiore tempestività» l’ostruzione intestinale che aveva determinato la setticimia. L’Azienda sanitaria, chiamata a processo, si era pertanto costituita in giudizio chiedendo il rigetto «per infondatezza» delle accuse. Comunque mettendo in dubbio come l’occlusione intestinale occorsa all’anziano, seguita da setticimia, potesse aver assunto un ruolo determinante in sè ai fini del decesso. Il secondo incarico era stato invece affidato dal giudice Sette al Ctu Ragni. Ne erano seguite due consulenze al fine di ottenere chiarimenti approfonditi. Il perito aveva confermato e ribadito come il comportamento dei sanitari avesse provocato «un ulteriore aggravamento del già precario quadro clinico» del paziente. Con ciò determinando le “probabili” condizioni del decesso.
Due visioni, dunque, diverse. Da una parte i familiari del defunto, assistiti dagli avvocati Matteo e Francesco Mion, del Foro di Padova, a sostenere che il comportamento assunto dai sanitari abbia pregiudicato una circostanza, l’occlusione intestinale, che si sarebbe ragionevolmente potuta affrontare. Dall’altra l’Azienda sanitaria, rappresentata dall’avvocato Riccardo Cattarini, a considerare invece quella che è stata ritenuta una «negligenza» di comportamento come l’impossibilità a prevedere il repentino aggravamento dell’uomo.
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