Monfalcone, il caporalato in cantiere vale 7 condanne
MONFALCONE. Condannati tutti e sette gli imputati al processo sul caporalato in Fincantieri. Condanna complessiva per 20 anni e 6 mesi. È il verdetto pronunciato ieri sera dal Collegio giudicante presieduto da Francesca Clocchiatti (a latere Nicola Russo e Gianfranco Rozze), dopo quasi 3 ore di Camera di consiglio. I giudici si sono ritirati attorno alle 18 per pronunciare la sentenza verso le 21.
Una lunga giornata, dopo peraltro l’imprevedibile “allarme bomba” al Tribunale di Gorizia che ha comportato la sospensione dell’attività per l’intera mattinata. L’udienza è stata pertanto ripresa nel primo pomeriggio. Le condanne sono frutto del patteggiamento già richiesto dagli indagati al Pubblico ministero all’epoca Martorelli, allora negato poichè il magistrato subordinò il consenso al risarcimento. Ciò vale per sei degli imputati, escluso Kabir Miah che non aveva richiesto il patteggiamento e nei confronti del quale la condanna sancita ieri è stata di 3 anni, 4 mesi e 750 euro di multa. In altre parole, il Tribunale ha ritenuto ingiustificato il dissenso espresso all’epoca dal Pm Martorelli, applicando i patteggiamenti richiesti.
Veniamo alle altre condanne: per Angelo Commentale e Giuseppe sono 3 anni, 4 mesi e 750 euro di multa, mentre per Pasquale Commentale 3 anni e 1.200 euro di multa. Per l’operaio bengalese Amin Ruhul la pena più alta: 3 anni e 6 mesi, oltre al pagamento di 620 euro di multa. E ancora, per Alessandro Rispoli sono 3 anni, 4 mesi e 750 euro di multa. Di fatto sono stati riconosciuti tutti i reati, dall’associazione a delinquere all’estorsione, alle buste paga false per non pagare i contributi. Quanto ad Anna De Simone, moglie di Angelo Commentale, la condanna è stata più lieve, 8 mesi con pena sospesa, in ordine a reati minori. Non solo. A carico dei Commentale, nonchè di Amin Ruhul, Alessandro Rispoli e Miah Kabir, è stata comminata anche la sanzione accessoria di interdizione per 5 anni dai pubblici uffici. Sempre per i Commentale è stata altresì disposta l’impossibilità di adire ad appalti pubblici per un anno. Inoltre, i Commentale, Ruhul, Rispoli e De Simone dovranno rifondere le spese di costituzione di parte civile. Il tutto rinviando le richieste di risarcimento danni in sede civile.
Una giornata campale. Aperta con l’arringa dell’avvocato Giovanni Iacono, difensore dell’operaio diventato caposquadra Alessandro Rispoli. Ha esordito con una introduzione volta a inquadrare l’ambiente che configurava l’attività nel cantiere navale, nel quale sono maturati i fatti contestati, sostenendo come non si potesse parlare di caporalato in questo procedimento. Ha evidenziato il problema in ordine alle traduzioni a mezzo di interpreti dei testi bengalesi ponendo l’accento sulle difficoltà di un’effettiva e chiara comunicazione. S’è quindi concentrato sulla posizione del proprio assistito, ritenendolo estraneo alle responsabilità contestate. Ha citato testi che «nulla hanno detto» in merito a presunti comportamenti illeciti di Rispoli, diventato responsabile del cantiere in qualità di semplice supervisore dei lavori. Una sorta di “notaio” delle ore lavorative effettuate e controllate assieme agli stessi operai.
Il Pm Laura Collini s’è presa una decina di minuti per replicare alle difese. Su tutto, ha chiarito come l’ingiusto profitto sia di fatto ascrivibile ai Commentale, non necessariamente quindi da imputarsi in capo ad Amin Ruhul, ritenuto dall’accusa il trait d’union tra i datori di lavoro e gli operai. Tuttavia, ha osservato sostanzialmente il Pm, le trascrizioni delle testimonianze e gli interrogatori resi hanno dimostrato che lo stesso Ruhul «si faceva comunque pagare dai connazionali per l’aiuto fornito».
Piuttosto brevi anche le repliche dei legali delle parti civili. L’avvocato Manuela Tortora, che rappresenta 10 lavoratori asiatici, oltre alla Fiom Cgil, ha insistito sulle minacce nei confronti degli operai citando la testimonianza di un lavoratore, Ullah Zuni: in aula aveva dichiarato che se non avesse accettato determinate condizioni di lavoro, sarebbe stato lasciato a casa senza essere pagato. In merito al fatto che poi il teste, di fronte all’esplicita domanda in ordine all’ammissione delle minacce subite, aveva invece negato, il legale ha obiettato: «Evidentemente c’è un problema di incomprensione concettuale. Il teste ha negato sì le minacce, ma intendendo quella di morte, non comprendendo la portata più ampia del termine. E il fatto di aver dichiarato che lo volevano mandare a casa se non avesse accettato determinate condizioni di lavoro, significa proprio ammettere la minaccia».
Tortora riferendosi alle arringhe delle difese, ha evidenziato come siano stati «bellamente ignorati» argomenti specifici e documentati nel procedimento, come le buste paga e le registrazioni degli orari di ingresso e uscita dei lavoratori, chiedendo sostanzialmente: «Se, atti processuali alla mano, non c’è stato sfruttamento, ditemi di cosa stiamo parlando».
L’avvocato Alessandro Ceresi, che assiste uno degli operai bengalesi, si è soffermato su aspetti tecnici. Quindi ha domandato alle difese, a fronte dell’obiezione sollevata in merito ad alcuni testi che non si sono presentati al processo sottraendosi all’esame dei legali: «L’indagine era partita nel 2012: li davate voi i soldi per farli restare in Italia in attesa del processo iniziato nel 2014?». L’avvocato Mariarosa Platania, difensore di Amin Ruhul, ha ribadito l’estraneità del proprio assistito alle accuse contestate, quindi di aver intascato soldi da chicchessia, riproponendo di fatto i concetti esposti durante la sua arringa. L’avvocato Paolo Marchiori, difensore di Pasquale Commentale, ha evidenziato su tutto: «Questo procedimento ha generato un’aspettativa mediatica, ma ciò che si chiede è un giusto processo, affinchè vengano valutati correttamente fatti e persone».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo