Monfalcone, boom di bengalesi malati di diabete

A essere colpite sono soprattutto le donne. La dottoressa Tortul: “Problemi di comunicazione creano difficoltà nella cura”

MONFALCONE. Dei 4mila pazienti monfalconesi affetti da diabete seguiti nell'arco di 2 anni dal Servizio operante nell'ambito del Distretto Alto e Basso isontino, l'8% è rappresentato da bengalesi. E per il 60% si tratta di donne che al San Polo si rivolgono con uno specifico problema: il diabete gestazionale, legato allo stato di gravidanza. Una situazione che molto spesso rende necessaria la terapia insulinica, non essendo sufficiente un semplice controllo alimentare. Il diabete che caratterizza la comunità asiatica, che a Monfalcone rappresenta il 13% della popolazione, costituisce un problema sociale.

Di comunicazione linguistica, di "monitoraggio" della patologia, di continuità terapeutica e di carico di lavoro per il servizio sanitario. Bengalesi spesso seguiti a "singhiozzo", con il rischio di aggravamenti della malattia e di ulteriori costi sociali. A spiegarlo è la dottoressa Carla Tortul, che dirige l'Unità operativa di diabetologia a carattere distrettuale di riferimento a entrambi gli ospedali di Monfalcone e di Gorizia. Il servizio si avvale di 4 medici, di cui uno espressamente dedicato al trattamento del "Piede diabetico", di una dietista e infermieri dedicati.

«Il diabete tra la comunità bengalese rappresenta una questione complessa - osserva la dottoressa -. Al nostro Servizio generalmente accedono le donne in stato di gravidanza, per le quali è stato riscontrato il diabete gestazionale. La gravidanza può aver indotto la patologia, oppure il diabete era già presente senza però che le pazienti ne fossero a conoscenza. Nella maggior parte dei casi di diabete gestazionale la malattia si risolve dopo il parto. Resta il rischio elevato di avere nuovamente un diabete gestazionale in una successiva gravidanza. Oltre la metà delle donne che hanno avuto il diabete gestazionale sviluppa il diabete di tipo 2 nei successivi 5-10 anni, in mancanza di intervento. Per questo è necessario seguire le pazienti costantemente».

La dottoressa continua, a proposito delle donne bengalesi: «È un grande carico per il nostro Servizio e per i ginecologi con i quali collaboriamo nel seguire la gestazione, complicata dalla necessità di intervenire con l'assunzione di insulina». Donne giovani, anche ventenni. Il diabete coinvolge pure gli uomini: «I bengalesi - spiega - rientrano tra i gruppi etnici più a rischio di sviluppare il diabete di tipo 2, caratterizzato da insulino-resistenza: l'insulina prodotta dall'organismo non funziona bene, quindi bisogna intervenire con una terapia farmacologica».

Anche in questo caso, il diabete compare nei bengalesi attorno ai 30 anni, ma pure già a 20 anni e non affetti da obesità. «Abbiamo notato, inoltre, che le abitudini assunte "occidentalizzandosi" possono aggravare la situazione». Il diabete che colpisce gli asiatici non è automaticamente legato alla loro dieta, a base di riso, verdura, carne e pesce, forse un po' ricca di grassi. «Succede piuttosto - spiega la Tortul - che la patologia si acuisce soprattutto per l'assunzione di cattive abitudini alimentari». Il diabete per gli altri pazienti monfalconesi, invece, è altra storia: «Il gruppo etnico caucasico nel quale rientra la popolazione italiana - spiega la Tortul - non è predisposto al diabete, se non in presenza di fattori di rischio, come la familiarità per diabete, sovrappeso e obesità, ipertensione arteriosa, persone con elevati livelli di grassi nel sangue o con glicemia alterata».

Il diabete si manifesta mediamente a partire dai 50 anni, sia per gli uomini che per le donne. Non è facile gestire la malattia per i bengalesi, patologia subdola poichè asintomatica. È un problema soprattutto di approccio: «I bengalesi - spiega la Tortul - non hanno la percezione della gravità della malattia e delle complicanze alle quali si può andare incontro, malattie cardiovascolari, come infarto o ictus, problemi oculari come il distacco della retina e la cecità, insufficienza renale e dialisi. Capita che i pazienti arrivino al Servizio, soprattutto gli uomini, in stato aggravato, ad esempio infartuati».

Difficile condurre anche la terapia: «A complicare le cose è la difficoltà di comunicazione, seppure abbiamo a disposizione un interprete. I pazienti si affidano in toto all'equipe, il loro approccio spesso è passivo e bisogna seguirli costantemente. Tutto ciò comporta difficoltà nella continuità terapeutica e di controllo della malattia, tanto che spesso li perdiamo nel tempo. Sarebbe auspicabile un coinvolgimento dei rappresentanti della comunità per sensibilizzarli alla conoscenza di questo tipo di problematica».
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