Molestò la collega, carabiniere condannato
Dopo l’assoluzione in primo grado, la condanna in appello a due anni. È questa la vicenda giudiziaria del maresciallo capo Fabrizio Innocenti, 54 anni, già vicecomandante della Stazione dei carabinieri di Guardiella. È finito nei guai per una brutta storia di molestie a una collega, una collega carabiniera. A pronunciare la sentenza di secondo grado è stato il giudice Pier Valerio Reinotti che ha presieduto la Corte d’appello composta da Fabrizio Rigo e Vittore Ferraro. Il collegio ha inasprito le richieste formulate dal pg Carlo Zampi al termine della requisitoria: un anno e 4 mesi. I difensori, Roberto Corbo e Alessandro Ceresi si erano battuti per l’assoluzione.
Due anni, dunque. In effetti le cose sono andate in maniera terribilmente diversa per il maresciallo Innocenti che - dopo l’assoluzione in primo grado sentenziata dal collegio penale presieduto dal giudice Filippo Gulotta e composto da Paolo Vascotto e Marco Casavecchia - aveva potuto tirare un sospiro di sollievo ottenendo restituita la dignità. «Non è vero quanto mi viene attribuito», si era sempre difeso il sottufficiale. Ma la beffa è che l’entità della pena sentenziata dai giudici d’appello è stata esattamente quella della richiesta del pm Massimo De Bortoli formulata al termine della sua requisitoria al processo di primo grado: due anni appunto.
Questa la vicenda che si era snodata nel 2009. La donna carabiniere, in servizio da pochi mesi a Trieste, aveva dichiarato di essere stata pesantemente molestata sia nella caserma di Guardiella sia durante i pattugliamenti esterni. A tirare in ballo il sottufficiale era stata la stessa collega, che in due occasioni aveva denunciato il maresciallo capo direttamente al comandante della Compagnia. Nella sua relazione, la militare aveva indicato numerosi messaggini sms dal contenuto hard con tanto di foto molto eloquenti che il maresciallo capo le aveva inviato. La donna aveva riferito poi di avances culminate in palpeggiamenti allo scopo, così era emerso dagli atti d’indagine, di convincerla ad avere un rapporto sessuale completo. In diverse occasioni, sempre stando alle accuse, la donna carabiniere era stata molestata mentre era seduta alla scrivania: il maresciallo si era appoggiato e strofinato contro di lei mimando un rapporto sessuale. Dalle stesse indagini era emersa poi anche una sorta di “fuga alle Beatitudini” avvenuta durante un servizio di pattuglia antitaccheggio al Giulia. La donna carabiniere aveva infatti riferito, nel rapporto inviato al Comando, che il maresciallo capo le aveva ordinato di abbandonare il servizio. Stando alle accuse i due militari erano saliti nell’auto privata del sottufficiale che si era messo al volante dirigendosi alla località delle Beatitudini, sotto Opicina. Lì, una volta fermata la vettura, l’uomo aveva chiaramente chiesto alla collega di avere un rapporto completo e, di fronte al rifiuto, le aveva detto che si sarebbe accontentato anche di un rapporto orale. Al secondo no, il maresciallo capo - sempre secondo le indagini - aveva messo le mani addosso alla collega. «Ti prego, fammi sognare...», queste le sue parole appassionate. Ma per nulla apprezzate né ovviamente condivise dalla giovane collega donna.
Durante il processo di primo grado la carabiniera aveva detto: «Il maresciallo era al volante della sua Ford grigia. Ci siamo diretti verso strada Nuova per Opicina e poi siamo arrivati alle Beatitudini. Erano le 17 ed era già buio. Mi ha chiesto di avere un rapporto sessuale. Me lo ha domandato a voce, poi ha provato a mettermi le mani addosso». A quel punto il giudice Gulotta - su richiesta della donna - aveva disposto la chiusura delle porte dell’aula. Ma durante il dibattimento erano emersi vari elementi ritenuti dai giudici contraddittori. Che, appunto, si erano materializzati nell’assoluzione, poi impugnata però dal procuratore generale.
In appello le cose sono andate diversamente. Ora - come ha annunciato la difesa - la parola passerà alla Cassazione.
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