Milos Budin: «Trieste in serie A con il suo teatro Stabile senza più confini»

di Arianna Boria
Si intitola “Nuovi criteri e modalità per l’erogazione, anticipazione e liquidazione dei contributi allo spettacolo dal vivo a valere sul Fus”. Una lunga definizione, per scatenare una guerra che, se anche breve, non sarà indolore. Teatri stabili contro teatri stabili per rientrare nella “top ten”, la prima delle categorie di riordino previste dalla nuova normativa, quella di “nazionali”. Non è solo questione di prestigio, ma soprattutto di ottenere maggiori contributi dallo Stato e, di conseguenza, anche dalle istituzioni locali, che saranno obbligate a intervenire con un importo di pari entità a favore degli enti d’eccellenza. Dopo i “nazionali”, ci saranno i teatri di “rilevante interesse culturale”, poi le imprese, poi i centri di produzione teatrale, per ultimi i “circuiti regionali”. Tutti con una fetta di torta proporzionalmente ridotta, quindi a rischio sopravvivenza.
Mentre il decreto è al momento al vaglio della conferenza Stato-Regioni, i teatri affilano le armi, sensibilizzando i politici, cercando di fare lobby, sottolineando pesi e ruoli. Miloš Budin, presidente dello Stabile del Friuli Venezia Giulia, non nasconde di puntare alla serie A. E lancia qualche messaggio ai buoni intenditori.
Il decreto vi preoccupa?
«Prima di tutto diciamo che una razionalizzazione è necessaria. Adesso ci sono circa 700 soggetti che prendono contributi pubblici, con doppioni e dispersioni che non possiamo più permetterci e che non sono garanzia nè di qualità nè di diffusione teatrale. Il decreto individua i parametri per rientrare nella fascia A o nella fascia B: quante recite in sede, quanta produzione in proprio, quante presenze, quante giornate lavorative... Ma nonostante si parli di numeri, è difficile, al momento, orientarsi con chiarezza. Faccio un esempio. Il Rossetti ha una sala da 1500 posti e un certo bacino di utenza, altri teatri 800 posti e un bacino più ampio: è chiaro che questo ci penalizza, abbassandoci il parametro del numero delle recite...».
Tutto dipenderà, dunque, dall’interpretazione delle norme...
«In linea generale il Rossetti ha già i requisiti per il gruppo dei “nazionali”. Attenzione, però: se il decreto punta a includervi solo tre o quattro teatri, quindi con un’interpretazione ferrea, è chiaro che parliamo di Roma, Milano, Torino... Se invece il numero sarà intorno alla decina, per il nostro Stabile sarebbe impossibile e inconcepibile non rientrarvi».
Perchè?
«Abbiamo numeri sopra la media degli Stabili nazionali, e non è una novità. Ma stiamo anche aumentando gli spettatori di quell’area che un tempo si sarebbe detta di “oltreconfine”. Trieste ha un’offerta multidisciplinare, per cui sono necessari determinati numeri. Mi spiego: i teatri stabili sloveni sono fortissimi, oltre la media europea, ma neanche Lubiana riesce a sostenere un ritmo di diecimila spettatori in sei giornate. E Trieste è a una distanza che per certi territori equivale a quella da Lubiana, Zagabria, da Venezia-Padova. Dall’Istria gli spettatori non vengono solo per “Cats”, ma anche per eventi meno straordinari. Da Pola, da Umago, si guarda a Trieste come dal Friuli...».
Forse meglio.
«Per il cittadino normale no, per l’establishment è vero».
Quindi puntate sul territorio allargato?
«Certo, è una dimensione che va ulteriormente maturata. Trieste, adesso che sono caduti i confini, sta recuperando lo status di “città di frontiera”, luogo di incontro di culture diverse. È un nostro diritto, e dovere, offrire a questo bacino ciò altri non sono in grado di fare».
Lei ha parlato di fortissimi teatri sloveni.
«La Slovenia ha una realtà teatrale che alza la media europea, ma per legge solo tre enti sono nazionali: Lubiana, Maribor - quindi al confine con l’area culturale tedesca - e Nova Gorica, al confine con l’area italiana. Questi ultimi due teatri hanno chiaramente la delega a cercare un incontro con i territori vicini e il Rossetti ha già in atto alcuni progetti di produzione con teatri sloveni, dell’Austria e della Croazia. È un interesse non solo della regione Friuli Venezia Giulia ma dell’Italia intera che qui ci sia un’istituzione teatrale che svolga un ruolo europeo».
Della regione Friuli Venezia Giulia e della Regione in senso amministrativo...
«Noi, come teatro, facciamo la nostra parte e le istituzioni devono fare la loro».
Che sensazioni ha?
«Tutti gli enti stanno prendendo le misure del decreto. Anche a Trieste può darsi che ci sia la necessità di fare una certa opera di razionalizzazione. Qualche situazione sta diventando un doppione».
Stabile Sloveno, Contrada, Miela?
«Lo Sloveno per il teatro in lingua slovena e il Miela per il cabaret, sono “specializzazioni” che non vanno soppresse. E, comunque, con entrambi il Rossetti ha avviato una collaborazione. La Contrada ha un cartellone molto simile al nostro, o addirittura analogo, quindi bisognerà riflettere su come fare le stesse cose più efficacemente e con minori costi. E non sto parlando di incidere sul personale. Fatta salva la tutela del teatro dialettale, razionalizzare rientra nei tempi in cui viviamo».
A settembre scade il quasi “ventennale” del direttore Antonio Calenda. Lo rinnovate?
«Ormai, e non solo in Italia, gran parte dei teatri si orienta verso il “bando”. Non c’è ancora alcuna decisione del consiglio di amministrazione, ma credo sia giusto farlo perchè in questo modo si evidenziano tutte le opzioni possibili. Un bando ampio, che richieda un certo curriculum e, per grandi linee, un’idea sul ruolo che l’istituzione teatrale deve ricoprire in quest’area. Credo anche che sia necessario un approccio “flessibile” nei confronti di quella disposizione dello statuto che parla del direttore, oggi una specie di “tuttofare”. Niente in difformità alle norme, ma elasticità. Al Rossetti ci sono già tante competenze, quindi serve una persona con capacità di programmazione artistica».
Ma il bando non è una sfiducia “diplomatica”?
«No, assolutamente. Solo bisogna prendere in considerazione tutte le opportunità possibili. Un’esigenza prima non sentita».
Calenda è piaciuto alla sinistra, in senso allargato, e alla destra. È arrivato con Illy e Damiani, è rimasto con Dipiazza e Lippi.
«Erano altri tempi, anche per la trasparenza dei metodi».
Budin lo confermerebbe Calenda?
«Non mi sembrerebbe signorile pronunciarmi in questa fase di avvio. Nessuno è escluso. Dirò di più: le candidature le valuta il cda, ma una decisione di questo tipo deve trovare opportune forme di coinvolgimento di tutti gli enti titolari del teatro. Non si tratta di scegliere una stagione».
Per lei che requisiti deve avere il direttore?
«Forti capacità di programmazione artistica e prestigio».
Come l’uscente.
«A Trieste facciamo fatica a riprendere quota nel basket e nel calcio. In campo teatrale giochiamo in serie A. Non possiamo permetterci di non rimanerci».
Adesso tutti parlano di Magazzino 18 perchè è un successo. Ma lei qualche dubbio l’ha avuto?
«Lo spettacolo me lo sono trovato, anche se non era stato ancora approvato al mio insediamento. Nessuna remora: sentivo che i tempi erano maturi per portare questo tema sul palco e che Cristicchi e Calenda avevano la sensibilità per proporlo in termini adeguati».
Ma i “ritocchi” di cui l’hanno accusata?
«Ho solo raccomandato, auspicato che lo spettacolo riflettesse le condizioni che sull’argomento la città intera ha maturato. Che non si tornasse indietro. Ci sono argomenti da affrontare con serenità, di cui si può smettere l’uso strumentale. Sotto sotto avevo fiducia che sarebbe finita bene. Molte critiche sono rientrate dopo la visione. Ne è rimasta una piccola parte: sia dalla sinistra che include gli sloveni, sia da destra».
Ci dà un’anticipazione sulla prossima stagione?
«Abbiamo fermi molti contratti per il problema del decreto. Posso anticipare che ci saranno Servillo, Preziosi, Haber. Ed Elio e Geppi Cucciari con il musical “La famiglia Addams”.
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