Migranti nei magazzini abbandonati del Porto Vecchio di Trieste, suddivisi per etnia: «Qui arabi, lì afghani»
Viaggio tra gli hangar abbandonati dell’antico scalo dove si rifugiano
decine di uomini. Anche qua vivono tra gli escrementi e la spazzatura
TRIESTE «Qua noi afghani, là arabi», dice un ragazzo sui vent’anni, viso scuro e ben rasato, indicando l’hangar davanti a sé. Si sono divisi il Porto Vecchio, si sono distribuiti i magazzini abbandonati. Per provenienza etnica.
Mentre nelle stanze delle istituzioni c’è un gran discutere su come e quando sgomberare il Silos dai migranti, qualche metro accanto si sta già formando un’altra città degli ultimi.
Ma nessuno sa davvero cosa ci sia lì dentro. Il livello di degrado, la quantità di discariche e di escrementi – e l’umanità che ci vive con quelle discariche e quegli escrementi – è tutta da decifrare.
Ed è proprio tra i meandri dell’antico scalo che una settimana fa era sparito il ventiquattrenne marocchino Ayoub Lakhlalki, dopo una serata a far baldoria in uno degli hangar abbandonati. Aveva bevuto e si era buttato in mare dalla banchina dei moli III e IV mentre i suoi connazionali scappavano lasciandolo annegare. Perché non lo avevano salvato? E perché Ayoub si era lanciato tra le onde, in una notte di pioggia e vento? Forse tentava di fuggire da un’aggressione? Non si spiega diversamente il comportamento del gruppetto che era con lui. Il giovane, un richiedente asilo, è stato trovato morto l’altro giorno nei pressi della vicina diga foranea dopo una settimana di ricerche.
Sono numerosi, su quei moli vista crociere, i resti dei bivacchi notturni dei migranti, cui partecipano anche ragazze triestine. In effetti era stata proprio una di queste ragazze, Sharon, a dare l’allarme quando aveva visto Ayoub buttarsi e gli amici che si dileguavano. Il suo nome, insieme a quelli di “Jessica” e “Oussama”, sono scritti con il pennarello nero, con disegnati sopra i cuoricini, su una coperta che giace per terra davanti alla banchina da cui il ventiquattrenne si era tuffato. Davanti, su un muretto, si scorge un sacchetto pieno di bottiglie e lattine vuote. La coperta e gli alcolici forse sono i resti di quella tragica nottata.
Il marocchino Ayoub probabilmente viveva in uno dei grandi magazzini di fronte al molo, il numero “2a”: quello degli «arabi», appunto. Si accede dal varco monumentale di largo Città di Santos, da cui si apre il viale che porta ai 67 ettari di spazi del Porto Vecchio, perlopiù dimenticati, con oltre un milione di metri cubi di magazzini, memoria del XIX secolo e del fiorente impero austro-ungarico con lo scalo nel pieno della sua crescita. Un’archeologia industriale marittima di cui oggi rimane testimonianza nella solidità architettonica degli hangar, nelle targhe di ferro dei montacarichi. E nello stesso ordine di collocazione dei lagerhauser delle merci pensati per il deposito, la conservazione e la sosta di ciò che passava per Trieste.
Contenitori vuoti, ora. E che l’umanità in fuga ha iniziato pian piano a riempire. Anche qui, come al Silos, sono spuntati accampamenti e tende. Le guardiole all’ingresso di ciascun hangar sono ormai occupate dai migranti. Quasi piccoli alloggi, con giacigli, vestiti appesi. Cibo, lattine. Il pettine, lo spazzolino, il profumo. Lo spazio per cucinare, con fornelli e sedie.
Sulla finestrella di una delle guardiole compare la scritta “Fes”, la città di provenienza, con la stella a cinque punte simbolo del Marocco. Salendo sui piani più alti, ecco altre persone accoccolate tra le coperte. Stanzoni enormi, in cui un tempo si ammonticchiavano le merci e adesso trovano posto loro. L’odore di bruciato, tipico dei falò accesi per cucinare, è un tutt’uno con il fetore – fortissimo – di urina ed escrementi. Di cibo andato a male accumulato da chissà quanto tempo. Non si respira.
Un marocchino dorme con accanto una spranga. Attorno, nella penombra, si distinguono lattine di birra e Red bull.
La palazzina degli afghani, proprio davanti, è forse peggio. Anche qua giacigli, zaini, resti di alimenti. Stanze usate come latrine. Cumuli di spazzatura ovunque. Chi non ha posto altrove viene qui. I migranti si lavano sulle banchine di fronte, muovendosi nel buio, tra gli anfratti degli antichi magazzini. È un’altra città fantasma, proprio come il Silos, che sta iniziando a popolarsi.
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