Migranti, la trincea di Trieste: la “bomba” sanitaria vicina alla stazione gestita soltanto dai medici volontari

TRIESTE Iman si asciuga il sudore dalla fronte con il dorso dell’avambraccio, sotto il solleone di un pomeriggio estivo uguale a ogni altro. Ha il volto incorniciato dall’hijab, mentre una mascherina chirurgica monouso le lascia scoperti solo gli occhi di pece. Guanti di plastica le avvolgono le mani, con cui cura le piaghe di chi ha percorso la sua medesima strada a piedi: gli ultimi della terra, che ogni giorno confluiscono a decine qui, in quella che informalmente si chiama ormai la «piazza del mondo». Prima, all’ospedale di Damasco, Iman faceva l’infermiera. Arrivata a Trieste attraverso il Carso in pieno lockdown, dopo un anno e mezzo di cammino, si è ritrovata di fronte a una città deserta, senza una parola d’italiano da saper spiccicare né un mezzo da poter prendere per proseguire la sua fuga verso Nord, come avrebbe voluto. «Pioveva, pioveva», racconta in inglese: «Dalla stazione non partivano treni. Niente Parigi, niente Milano».

A intercettarla in Porto vecchio per primi sono stati i volontari de La Linea d’Ombra Odv: un incontro casuale e al contempo dal sapore destinico dal momento che la cofondatrice dell’associazione, Lorena Fornasir, aveva già incontrato la dottoressa siriana portando aiuti umanitari a Velika Kladuša, in Bosnia Erzegovina. Dopo mesi le due donne si sono riconosciute a Trieste. Adesso anche Iman è una volontaria, oltre che una richiedente asilo inserita nel circuito d’accoglienza locale.
Fantasmi
Vorrebbe un lavoro qualsiasi per mandare soldi a casa ma, complici i corsi di lingua che ultimamente sono saltati, non riesce a trovarlo. E così eccola a fare comunque il suo mestiere in piazza della Libertà, prendendosi cura di persone che nella maggior parte dei casi non hanno neanche questo: i cosiddetti irregolari, ovvero esseri umani che ufficialmente non esistono, se non come numeri o fantasmi. La presenza più simile a quella di un’istituzione è rappresentata da alcuni operatori di Ics-Ufficio rifugiati onlus, che forniscono ad esempio informazioni legali a chi vuole e può richiedere protezione internazionale, ma quella è un’altra storia.
Volontari
Per il resto a farsi carico dell’emergenza umanitaria che si è cristallizzata a due passi dalla stazione ferroviaria, oggi come durante i mesi della quarantena, è personale che agisce a titolo privato e volontaristico. Il che significa a proprie spese, nonché rischio e pericolo, essendo in corso una pandemia globale: l’unica differenza rispetto a marzo è che zona rossa Covid in questo momento non è più l’Italia bensì l’area balcanica, da dove i migranti arrivano.
E verso dove fanno pure ritorno da quando, a maggio, il ministero dell’Interno presieduto da Luciana Lamorgese ha sollecitato il ricorso alle cosiddette riammissioni informali dal confine del Friuli Venezia Giulia verso la Slovenia: secondo le denunce di diverse organizzazioni del Terzo settore, ciò che accade a pochi chilometri da questo piazzale è il primo anello della catena di respingimenti che, a ritroso, passa pure per i manganelli di Zagabria. Ma anche questo sarebbe un capitolo a parte.
Solidarietà
Tornando alle poche decine di volontari – di cui il più anziano ha 83 anni – operanti davanti alla stazione dei treni, scendono in piazza ogni pomeriggio alla stessa ora: grazie a una catena di donazioni solidali riescono a procurarsi mascherine, guanti, tamponi, generi alimentari di prima necessità, scarpe comode per chi ha i piedi feriti e non riesce a fare un passo oltre. Soprattutto, offrono soccorso di carattere igienico-sanitario, non solo distribuendo ai migranti dispositivi di protezioni individuale, ma anche banalmente portando bottiglie di plastica riempite d’acqua, sapone o gel igienizzante per dare alla gente la possibilità di lavarsi.
Non ci sono solo quelli della già citata Linea d’Ombra ma anche i giovani medici e infermieri (a dire il vero sono quasi tutte donne) de La Strada SiCura: si definiscono «attivisti della salute», considerata un «diritto umano fondamentale», e sono convinti che intervenire in una situazione simile sia loro «dovere» appunto di medici.
Hanno giurato davanti a Ippocrate, dopotutto, e quindi smontato il turno vengono qui. Dal loro punto di vista non si tratta di utopismo ma di una ben più concreta questione di salute pubblica: «Il nostro lavoro volontario tutela questi individui e di conseguenza tutta la comunità, riempiendo il vuoto lasciato da servizi che dovrebbero essere garantiti dalle istituzioni», si legge sui loro profili social.

Quotidianità
Durante una scena di ordinaria quotidianità in piazza sarà presente una trentina persone. Moltiplicate per ogni giorno. Non ci sono solo migranti ma anche homeless italiani ed europei, che possono entrare in dinamiche di conflitto con chi è appena arrivato, per contendersi un briciolo d’attenzione o di assistenza: una guerra tra poveri, testimoniano i volontari, a maggior ragione da quando lo scorso 18 maggio l’amministrazione comunale ha deciso di chiudere definitivamente lo storico sportello Help Center della stazione, optando per altre soluzioni. Un ulteriore capitolo a parte.
Corpi come pergamene
Tutti ad ogni modo fanno la fila per sedersi sulla panchina dove l’infermiera di Damasco sta disinfettando le ferite aperte ai piedi di un ragazzo che trattiene una smorfia di dolore. Un altro, in attesa del proprio turno, ha una vescica grande come un’albicocca poco sopra il tallone: dal confine croato-bosniaco a quello italo-sloveno sono circa quindi o venti giorni di marcia, lo sforzo finale, dopo i mesi e mesi trascorsi paralizzati nei campi bosniaci, greci o turchi.
«I loro corpi sono come pergamene su cui è scritto il linguaggio dei boschi», racconta Fornasir: «Un linguaggio fatto di ferite infette, cicatrici, suppurazioni, come quella di un ragazzo cui si era conficcato un ramo in un polso. Durante il viaggio filtrano il fango attraverso i calzini per ottenere un po’ d’acqua da bere». Infine ci sono i detrattori. Le persone di cui abbiamo parlato finora, infatti, riferiscono di essere state in più di un’occasione insultate dai passanti per quello che fanno.
Se nel piazzale antistante la stazione la situazione è quella descritta sopra, diversi sono i passaggi previsti per i migranti che vengono rintracciati sul Carso triestino dalla Polizia di frontiera oppure dall’Esercito. La prassi vuole che i profughi siano presi in carico dalle forze dell’ordine e quindi trasportati a Fernetti, dove a partire dallo scorso maggio è stata allestita una tenda militare. A quanto risulta, qui personale sanitario sottopone i migranti al triage sanitario tipico dell’era Covid-19. Qui - presumibilmente - si gioca inoltre la partita delle cosiddette riammissioni informali verso la Slovenia previste da un accordo tra Roma e Lubiana del 1996. Si valuta in altre parole chi ritornerà oltreconfine e chi invece accederà alle strutture preposte all’accoglienza. E rimane da chiarire in base a quali criteri ciò avvenga.
Non più tardi del 4 agosto l’Associazione per gli Studi sull’immigrazione (Asgi) ha scritto una lunga lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al ministero dell’Interno e all’Unhcr, in cui tali pratiche sono definite «illegittime» e se ne chiede la fine. I migranti che restano in Italia, ad ogni modo, devono poi sottoporsi obbligatoriamente a due settimane di isolamento fiduciario, ovvero quarantena.
A Trieste allo scopo sono adibiti l’ostello scout di Prosecco, l’Hotel Villa Nazareth e l’Hotel Transilvania: hanno rispettivamente 122, 39 e 30 posti e per il momento reggono. A Gorizia ci sono tre strutture simili, mentre in Friuli si contano il seminario arcivescovile di Pagnacco, la foresteria del castello di Tricesimo e la caserma Meloni di Tarvisio, dopo che l’ex caserma Cavarzerani è stata “blindata”.——
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