Migrante morto sul Carso, la Caritas: «Ora si rifletta»; Ics: «Responsabilità politica non solo italiana»

Don Amodeo e Schiavone denunciano il fallimento delle strategie adottate dalle istituzioni. La senatrice Rojc del Pd: «Quanto accaduto ci interpella tutti. Bisogna coinvolgere l’Europa» 
La Marcia per la pace dedicata al migrante morto sul Carso (Lasorte)
La Marcia per la pace dedicata al migrante morto sul Carso (Lasorte)

TRIESTE Il 2020 inizia nel segno della disperazione. La rotta balcanica non è da tempo un cammino della speranza. La morte di un migrante algerino, finito in un burrone sotto gli occhi della moglie nei pressi del castello di San Servolo, è lo specchio di una realtà che le istituzioni e la politica fanno finta di non vedere.



«È uno dei peggiori inizi d’anno che possano accadere», esordisce don Alessandro Amodeo, direttore della Caritas Trieste che ieri ha accolto la moglie dell’immigrato deceduto a San Servolo mentre tentava di valicare il confine tra Slovenia e Italia. «È un disgrazia che ci fa riflettere molto - spiega il sacerdote impegnato nell’accoglienza -. Queste persone, pur di fuggire da dove sono, mettono veramente a rischio la propria vita. È assurdo trovarsi difronte a fatti del genere dopo tanti anni di immigrazione sulla rotta dei Balcani. Questo fa veramente pensare che è necessario un ripensamento delle politiche dell’accoglienza. Queste persone sono costrette a fare questi percorsi. E, se anche avessero superato il confine, si sarebbero trovate in condizioni disperate visto il freddo di questi giorni in Carso. Non si può morire in questo modo». Ma nulla accade per caso.

A Trieste la Marcia per la pace, dedicata al migrante deceduto sul Monte Carso

«Quello che è successo non è un generico incidente. In gioco ci sono le condizioni con le quali le persone arrivano. Il fatto che invece di essere aiutate e salvate vengono braccate come fossero dei criminali. E sono costrette a nascondersi. E non parlo solo dell’Italia, ma anche della Slovenia e della Croazia», denuncia Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà. «Queste tragedie hanno una responsabilità politica molto forte. È inutile nascondersi dietro un dito. Parliamo dei morti di freddo in Slovenia, della violenza della polizia croata - spiega Schiavone -. Siamo di fronte a una rotta piena di violenza. E su questo non c’è una sola parola. Oppure, come nel caso di Pierpaolo Roberti, c’è un incitamento alla violenza. Siamo di fronte a una politica che è totalmente indegna di essere chiamata tale».

Sotto accusa quanto dichiarato il 28 dicembre scorso in Consiglio regionale dall’assessore leghista alla Sicurezza: «Gli ingressi non autorizzati via terra hanno fatto registrare un recente nuovo aumento, dato che conferma l’opportunità già condivisa con la Slovenia di operare congiuntamente con tecnologie innovative per il monitoraggio dei confini, la Regione si dichiara disponibile rispetto all’apertura di nuovi Cpr per contribuire a ridurre sensibilmente il fenomeno dell’accoglienza diffusa». Ma non tutti approvano questa linea. «La rotta balcanica è un cammino di disperazione che troppo spesso conduce alla morte, in questo caso sotto i nostri occhi alle porte di Trieste. In attesa dei leoni da tastiera che diranno “se l’è cercata” o “è colpa del Pd”, spero si cominci a occuparsi seriamente di questo fenomeno che non gode della ribalta mediatica come il Mediterraneo», afferma la senatrice del Pd Tatjana Rojc. Da combattere c’è l’indifferenza. «Il primo migrante morto nel 2020 a pochi passi da noi - osserva Rojc - interpella le coscienze ma soprattutto chiede alle istituzioni e alla politica di agire, in primo luogo sul piano internazionale e col coinvolgimento dell’Europa. Questa morte e ciò che ne è all’origine non è un affare solo italiano né italo-sloveno. Alla crescita dei transiti via terra non si risponde con vecchi slogan o cattivismo da campagna elettorale». —


 

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