Migliaia di albanesi nel sud della Serbia cancellati dagli elenchi dei residenti

La denuncia dell’Helsinki Committee: «Da Belgrado pulizia etnica per via amministrativa». Il Kosovo protesta, l’Ue vuole vederci chiaro 
Stefano Giantin

BELGRADO «Ho scoperto di essere stato passivizzato quando sono andato di persona alla polizia per rinnovare il passaporto; proprio in quell’occasione mi hanno informato del fatto a voce, senza darmi alcuna carta, malgrado avessi molto insistito». «Sono andato a farmi rilasciare un nuovo passaporto a Medvedja e un funzionario mi ha detto che il mio indirizzo era stato passivizzato. E non ho potuto far nulla, perché nessuno mi ha spiegato quale fosse la procedura per fare appello». «Dopo una visita in ospedale sono tornato a casa e un vicino mi ha avvisato che la polizia era venuta in visita. Al tempo avevo carta d’identità e passaporto. Dopo, dal nulla, mi son trovato passivizzato, privato anche del diritto di voto».

Sono alcune delle testimonianze contenute in un duro rapporto del Comitato Helsinki serbo, autorevole organizzazione per la protezione dei diritti umani. Secondo la denuncia del Comitato, nel sud della Serbia, in quella valle di Presevo a maggioranza albanese che è focolaio di tensione da decenni, sarebbe in corso una vera e propria «pulizia etnica», non violenta bensì messa in atto «per vie amministrative», ha denunciato l’Helsinki Committee. È appunto la “passivizzazione”: termine ostico, tema caldo da anni per gli albanesi di Presevo, Medvedja, Bujanovac e dintorni, in tutto circa 70mila persone.

La passivizzazione è l’annullamento d’autorità della residenza ai cittadini, con l’adduzione di ragioni quantomeno discutibili. Il processo, in generale, funziona così: la polizia controlla se una persona vive effettivamente nella casa in cui ha registrato la residenza. Se ai controlli risulta assente, l’individuo può essere “de-registrato” perdendo così il diritto a documenti, l’accesso all’assistenza sanitaria, all’educazione, il diritto al voto. Si tratta di un «problema acuto, che va in scena da anni e che solo ora è denunciato da organizzazioni internazionali, un fenomeno di massa», ha denunciato l’Helsinki, che insieme ad altre autorevoli Ong che ha stimato in almeno quattromila le vittime del fenomeno. Fenomeno, secondo il Comitato, che altro non sarebbe che «una misura molto mirata di pulizia etnica amministrativa». Mosse «sistematiche, motivate politicamente, applicate sulla base della legge sulla residenza del 2011 in maniera discriminatoria a danno degli albanesi», ha sostenuto Flora Ferati-Sachsenmaier, ricercatrice del Max Planck Institute per gli Studi religiosi e la diversità etnica.

Il fine della passivizzazione? L’obiettivo di Belgrado sarebbe «ridurre il numero degli albanesi nel sud della Serbia», almeno fittiziamente, facendo loro perdere diritti importanti, perfino quello alla pensione, per sfociare nella «perdita del diritto al bilinguismo». Ridimensionando radicalmente o financo cancellando, attraverso la burocrazia, i numeri di una minoranza “scomoda”.

Le denunce credibili dell’Helsinki fanno il paio con altre accuse pesanti contro la Serbia, dove all’opposto si parla di misure del tutto legali, per de-registrare emigrati o persone che non hanno partecipato al censimento del 2011. Accuse come quelle dell’attuale presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, che ha parlato di «riduzione sistematica della popolazione albanese», architettata per «forzare le persone» ad andarsene. Sulla stessa linea anche il premier kosovaro Albin Kurti, che tempo fa ha sostenuto che la Serbia starebbe tentando di «desertificare comuni a maggioranza albanese non più con la violenza e i carri armati, ma per vie amministrative». La stessa Ue si è ripromessa di studiare un caso probabilmente unico in Europa, da mettere sicuramente sotto la lente per la sua gravità. —


 

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