«Mia figlia a letto malata ferma e muta, ma staccare la spina è troppo dura»

Samantha, 27 anni: un tumore al cervello l’ha colpita a 15 «A volte la guardiamo, ci chiediamo se pensa a qualcosa»
di Gabriella Ziani
«Il pensiero viene, sì, di far smettere una vita che non è più quella, come accaduto al padre di Eluana Englaro. Ogni puntura a quel corpo sofferente sembra che punga te. Ogni medicina sembra amara per genitori vicini a una figlia che non risponde. Si vorrebbe non aggredirla, non ferirla più. Meglio farla morire che farla soffrire. Però per un genitore è dura. È troppo dura una decisione così. Mia figlia aveva solo 16 anni. Samantha era però un tipo sempre molto combattivo, sempre forte, calma, brava a scuola, e questo ci rincuora. Ma qualche volta la guardiamo e ci chiediamo chissà che cosa pensa, se pensa qualcosa».


Questo è il racconto, accorato, amaro e arrabbiato, di Chiara Suffredini, mamma di Samantha che oggi ha 27 anni. A 15 si è ammalata di tumore al cervello. È in vita più per la disperata volontà della famiglia che per altro. Da tempo è quasi nello stesso stato incosciente di Eluana. Vive accudita in casa dai genitori e da una sorella più giovane, è a letto, ferma e muta. È nutrita col sondino. Due volte al giorno arrivano gli assistenti inviati dal distretto sanitario.


«Ora ogni tanto muove gli occhi, fa qualche espressione» dice la mamma. Però è da un anno che la famiglia aspetta il sollevatore per alzare due-tre volte al giorno il corpo esanime della figliola, e non lo riceve: «Lo compro io, ho detto ai medici, ma non me lo lasciano fare, dicono che ci spetta e lo procura il distretto, ma dopo un anno ancora non c’è, tra un po’ giuro vado in tv a denunciarlo, vado a ”Striscia la notizia” quanto meno, questa nostra vicenda dimostra che sei sempre tanto solo e lasciato a te stesso, in ospedale, al distretto, e anche a casa, tanti problemi, arrabbiature, e soldi, spese a non finire. Pare che tra un po’ ci toglieranno in parte anche l’assistenza domiciliare, dicono che Samantha sta un po’ meglio. È pazzesco. Non ce la possiamo fare».


Ecco la storia di questa famiglia, che un giorno all’improvviso è piombata dal giorno alla notte. «Aveva 15 anni Samantha, e la sorella 12, quando ha cominciato ad avere vomito e problemi alla vista. Portata al Burlo Garofolo per una visita oculistica, si è scoperta la verità. Aveva un tumore al cervello. L’abbiamo fatta operare a Cattinara, ma niente. Il chirurgo ha aperto e richiuso, ha detto che era impossibile, troppo grave, troppo giovane. Siamo andati al Cro di Aviano. Niente da fare, è stata la risposta. Abbiamo trovato due medici a Verona: 10 ore di intervento, tolto il 90% del tumore, 22 giorni in rianimazione. Tutti noi siamo vissuti per tre mesi in quella città, prima in una stanza data dall’ospedale e poi in un appartamento a 30 chilometri di distanza. Ci chiamavano ”i tre dell’Avemaria”... Mio marito, brigadiere dei carabinieri, è rimasto un mese e poi è tornato al lavoro.


«Volevamo far tornare a casa Samantha con le sue gambe: tanta riabilitazione, dunque. Ma infine stava abbastanza bene, ha perfino ripreso la scuola. Dopo due anni il tumore si è ripresentato. Allora, radioterapia. E dopo cinque anni tutto daccapo un’altra volta. Mesi e mesi di ospedale. Tracheotomia per respirare. Sondino per mangiare. È cosciente, credo, non può camminare né parlare. Ci guarda. È rimasta otto mesi in Medicina d’urgenza, ma non la volevano tenere, ”pensi ai costi, signora!”. Abbiamo preteso, insistito.


«Poi volevano mandarla in un posto fuori Trieste a stare lì, non può assolutamente stare a casa, ci dicevano. E noi invece proprio questo volevamo, almeno averla a casa. È stata a Pineta del Carso per un periodo, e poi abbiamo dovuto veramente combattere col distretto sanitario per portarla via. Ho cacciato degli urli, degli urli che hanno fatto tremare le pareti di Pineta. E così da un anno Samantha è a casa.


«Perché - prosegue la coraggiosa mamma - lì era così sola, invece noi le stiamo sempre vicino, la stimoliamo continuamente, ora ci dà la mano, ci guarda, fa certe espressioni che tentiamo di interpretare. Per quattro ore al giorno, mattina e sera, vengono gli infermieri di una cooperativa privata pagata dal distretto, e due volte alla settimana viene il medico del distretto. Bisogna alzarla, lavarla, fare le terapie, adesso che è a casa siamo tutti un po’ più tranquilli, ma è stata dura per tutti noi, la vita sconvolta, uno strazio continuo, anche la sorella poverina aveva solo 12 anni quando Samantha si è ammalata, la sua giovinezza ne ha risentito.


«Perché a questa figlia stiamo sempre attorno - prosegue la mamma -, è un sottile filo che ci tiene legati a lei, e da tanti anni. Sappiamo che ogni volta che le sue capacità scendono di un gradino non risaliranno più, però ci fa qualche carezza, ci guarda. Il guaio è che tante volte non si sa che cosa fare. Arriva il medico e anche lui non sa che cosa fare, un medico di famiglia può fin dove può. Ma anche in ospedale abbiamo dovuto sempre chiedere, sempre pregare, sempre imporci. Come abbiamo resistito? Forse perché tutti e tre in famiglia abbiamo sempre avuto un temperamento positivo, e siamo riusciti a tenerci insieme, uniti, c’è stato un periodo che ci trascinavamo avanti l’uno con l’altro».


Fluisce il racconto di Chiara Suffredini, l’eco della battaglia risuona ancora forte, anche perché è battaglia che si rinnova ogni giorno, e a ogni ora del giorno.


«Abbiamo dovuto tanto combattere anche coi medici, oltre al dolore anche un nervosismo enorme, la peggior cosa in certe situazioni. Nessun ospedale ci ha mai dato nemmeno un aiuto psicologico, e nessuna vera assistenza, ci si sente davvero tanto soli, un tormento quando già ne hai uno tanto grande, ma non c’è chi ti venga incontro, adesso vogliono ridurre l’assistenza e dovremo fare tutto noi da soli? Ma come? Giuro che andremo a ”Striscia” se questo succede, perché, vede, la presenza di questi bravissimi operatori della cooperativa è anche un conforto per noi, si chiacchiera, si chiede un consiglio, magari uno di loro a volte dice ”sa che oggi ho visto Samantha un po’ meglio?”, e allora ci si sente meglio anche noi, capisce».
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