Giorno della Memoria, le medaglie d’onore in Prefettura a Trieste: «I giovani si battano per la pace»

Cinque gli insigniti. Militari italiani deportati: dopo l’8 settembre 1943 dissero no ai nazisti. I parenti ne raccontano le storie. La moglie di un internato, Lida Ban, 97 anni, lancia il monito

Valeria Pace
La cerimonia in Prefettura
La cerimonia in Prefettura

«Il mio monito per i giovani è di stare sempre in guardia e lottare per la pace per non andare incontro ai fatti inenarrabili che abbiamo vissuto noi», questo è il messaggio di Lida Ban, 97 anni, moglie di Antonio Onofrio, internato in Baviera dopo essersi rifiutato di collaborare con i nazisti, uno dei cinque insigniti della medaglia d’onore in Prefettura, assieme ai fratelli Carlo e Mario Musizza, a Luciano Di Taranto e a Mario Sossini.

I parenti dei cinque hanno ricevuto le onorificenze dal prefetto di Trieste Pietro Signoriello, dal sindaco Roberto Dipiazza e dall’assessore regionale all’Ambiente, Fabio Scoccimarro, in rappresentanza del governatore Massimiliano Fedriga.

 

Giornata della Memoria, Lida Ban ricorda a Trieste il marito deportato

Il marito di Lida, Antonio oggi avrebbe 102 anni. Per lei è un giorno importante perché «la memoria è quella orale, raccontata da chi ha vissuto il nazismo, la guerra, i bombardamenti e la fame, perché libri e documentari non danno la stessa esperienza». Lida non vide mai in prima persona l’orrore dei campi di concentramento, ma conserva i racconti del marito.

Che le ha parlato dei lavori forzati: fu costretto a costruire gallerie con un unico pasto al giorno, «una ciotola di minestrone» la mattina. Poi il gelo: «Vivevano in baracche a 13-15 gradi sotto zero, ha rischiato di essere fucilato per aver rubato una traversina di un binario morto» per fare fuoco. Orrori vissuti perché, da giovane militare, dopo l’8 settembre ha rifiutato di mettersi al servizio dei nazisti.

«È stato considerato disertore, e quando si è presentato al suo posto di lavoro all’Inps di via Carducci 6 a Trieste c’è stata una retata. È stato portato in caserma a Roiano con altri, poi su un treno, un carro merci» e deportato. Dal campo Antonio è riuscito a scappare di notte assieme ad altri undici, temendo che tutti i detenuti sarebbero stati fucilati prima della disfatta.

Da lì il viaggio «a piedi e con qualche passaggio fino in Friuli», dove «si è agganciato ai partigiani della brigata Osoppo». Ma con la liberazione non è potuto ritornare a Trieste, ha dovuto aspettare fino al 12 giugno: «Era perseguitato dai partigiani di Tito», che dal primo maggio occupavano la città. La medaglia per il marito l’ha ricevuta Lida assieme alla nipote Cristina Florean, avvocata che si occupa – tra l’altro – delle cause di risarcimento per i parenti delle vittime del nazifascismo.

L’8 settembre 1943 ha segnato la condanna anche per altri insigniti militari, come Mario e Carlo Musizza, due fratelli nati a Isola d’Istria (rispettivamente nel 1914 e nel 1916), ufficiali della Marina militare. Rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale. Furono catturati sulle isole greche dopo aver opposto resistenza, Carlo a Creta e Mario a Lero. Furono internati nei campi di concentramento nazisti, Carlo nel campo di Berlino Stalag III D e Mario a Lublino. Dopo essere sopravvissuto ai campi nazisti, Mario venne catturato a Isola dai titini, dove si era recato per salutare la famiglia, e morì nel 1947 nel carcere di Capodistria «ucciso dalla polizia segreta jugoslava».

A ricevere l’onorificenza per entrambi è stato il figlio di Carlo, Mario, chiamato così in onore dello zio. Con lui c’era suo figlio Tommaso, oggi giovanissimo agente della Polizia di Stato, che si è occupato di raccogliere la documentazione per il riconoscimento.

Grande l’emozione di Mario Musizza, che ricorda: «Mio padre è arrivato a pesare 36 chili in campo di concentramento, è morto per complicazioni legate agli stenti. Ricordava le bombe su Berlino e la paura, i compagni che morivano attorno a lui, e la paura, una volta uscito, che fossero i russi a prenderli: c’era la paura che li avrebbero trattati ancora peggio dei nazisti». Un riconoscimento tanto più significativo perché si incrocia con una parte della storia «di cui non si poteva nemmeno parlare quando ero piccolo».

Mario Sossini fu ucciso a 25 anni nella marcia della morte a Gandersheim, a cui i nazisti sottoposero gli internati per nascondere le atrocità dei campi mentre si avvicinava la disfatta. Prima era passato dai campi di Dachau e poi da Buchenwald. A raccontarne la storia è stata la nipote Cinzia Sossini, figlia di un fratello di Mario, ora novantenne. «Mio zio era nel reparto della Sanità, lavorava in ospedale a Roma, dopo l’armistizio è tornato a Trieste. Fu portato a lavorare in Austria, poi nel luglio del 1944 fu arrestato perché accusato di aver aiutato un compagno a fuggire», racconta Cinzia. «Noi nipoti diventati adulti abbiamo deciso di fare delle ricerche su cosa fosse successo allo zio, il suo corpo non fu mai restituito. È particolarmente importante dare valore alla sua memoria», rimarca. —

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