Medico triestino analizza i corpi dei migranti morti in mare per dare loro un nome
TRIESTE I più la conoscono per il suo utilizzo in ambito forense, mirato a incastrare colpevoli di delitti e per dirimere delicati casi di paternità. Ma la prova del Dna viene impiegata anche per l’identificazione di resti umani quando avvengono grandi incidenti o catastrofi naturali, i cosiddetti “mass disaster”. È questo il caso di una ricerca per l’identificazione delle vittime dei naufragi di Lampedusa, portata avanti in ambito nazionale e alla quale sta partecipando anche l’Università di Trieste con Paolo Fattorini, docente di Medicina legale del dipartimento di Scienze mediche, chirurgiche e della salute.
Grazie al lavoro del gruppo di ricerca, coordinato da Cristina Cattaneo di Milano e da Carlo Previderè di Pavia, è stato così possibile identificare una quarantina delle persone che furono tra le vittime del terribile naufragio avvenuto il 3 ottobre 2013 nello specchio di mare davanti a Lampedusa, di fronte all’Isola dei Conigli. All’epoca un barcone carico di circa 500 migranti, originari dell’Eritrea, Somalia ed Etiopia e salpati dalla Libia, affondò presso le coste di Lampedusa. In 155 furono i naufraghi tratti in salvo, mentre 366 corpi vennero complessivamente recuperati nei giorni a seguire. Si trattò di una delle peggiori disgrazie avvenute in anni recenti nel nostro mare. E fu proprio in quella occasione che venne seguito - per la prima volta - un protocollo medico legale atto a garantire l’identificazione delle vittime in disastri di massa (Disaster Victim Identification).
«Su tutti cadaveri venne eseguita l’ispezione esterna con rilievi fotografici e dei prelievi per l’analisi del Dna, che è l’unico elemento di certezza quando si vuol identificare una persona - spiega Fattorini -. Già nel 2013 quindi abbiamo ottenuto, grazie alla Polizia scientifica di Palermo, i dati genetici di 366 individui; ma per l’identificazione servivano dei campioni dei familiari delle vittime con cui confrontarli. Ci è venuto in aiuto il Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, che ha autorizzato la racconta di campioni di Dna dei parenti delle vittime».
All’appello risposero in 52 persone, qualificandosi come genitori o parenti di persone che ragionevolmente erano imbarcate su quella nave. I 52 campioni di Dna così raccolti sono stati comparati dal gruppo di ricerca con ciascuno dei campioni delle vittime recuperate, rendendo possibile l’identificazione di 40 vittime.
«Ci sono state alcune difficoltà, perché è stata la prima volta in cui in Italia ci siamo trovati a gestire una mole così importante di dati, e perché non possedevamo dei database genetici relativi alla regione sub-sahariana da cui i migranti provenivano», racconta ancora Fattorini. Ma il gruppo di lavoro ce l’ha fatta: e nell’articolo pubblicato sulla rivista “Forensic Science International Genetics” vengono descritti i risultati ottenuti dall’analisi genetico-comparativa eseguita.
Il lavoro però è tutt’altro che terminato: «Adesso ci sono altri corpi che attendono di essere identificati, quelli del naufragio del 18 aprile 2015 nel canale di Sicilia, in cui morirono quasi mille persone - prosegue il docente di Medicina legale -. E anche in questo caso sono stati recuperati i corpi e sono stati effettuati i relativi prelievi di Dna, che vanno comparati con quelli degli ipotetici parenti». Per fare questi accertamenti però il Governo non stanzia neppure un euro: «L’Università lo fa con piacere, ma funziona tutto su base volontaria», annota Fattorini, che nel tempo si è occupato fra l’altro di vari casi notissimi, fra cui quello dell’omicidio di Yara Gambirasio.
Ideato nel Regno Unito agli inizi degli anni Ottanta da Alec Jeffreys, il test del Dna entrò per la prima volta sotto la luce dei riflettori per un caso clamoroso, quello della morte dei Romanov per opera dei rivoltosi bolscevichi: grazie alle analisi fu possibile attribuire gli scheletri ritrovati ai membri della famiglia reale. —
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