Maurizo Scaparro porta a Roma Italo Svevo

Va in scena al Teatro Quirino “La coscienza di Zeno” con Giuseppe Pambieri nei panni del protagonista. Lo spettacolo sarà in cartellone a Trieste nella prossima stagione
Di Roberto Canziani

ROMA. Dice Trieste, e scatta in lui qualcosa che va oltre le figure della letteratura, le ragioni della storia, i segni delle geografie. Dice Trieste, e subito ricorda che suo padre è sepolto qui, poco distante dal quadrangolo delle eccellenze cimiteriali: Saba, Giotti, Strehler, e naturalmente Svevo. Maurizio Scaparro è il regista della nuova edizione di “La coscienza di Zeno”, che da stasera va in scena a Roma al Teatro Quirino e che sarà in cartellone nella prossima stagione di prosa del Politeama Rossetti. L’adattamento dal romanzo di Svevo è quello canonico, preparato ancora negli anni ’60 da Tullio Kezich. Il ricordo e la familiarità con Kezich, assieme al quale aveva già rielaborato “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello (e anche un “Don Chisciotte”), hanno spinto Scaparro a riprendere in mano il titolo sveviano, che festeggia ora 90 anni dalla pubblicazione. «Eppure se dico Trieste – esordisce Scaparro - il pensiero inevitabilmente va a mio padre, che vi passò un periodo della vita come commissario. Lavorava per il Ministero del Commercio Estero. Era futurista – i tempi erano quelli – fu uno tra i firmatari del Manifesto del teatro futurista».

Niente a che fare con Svevo, che in quanto a teatro era piuttosto tradizionalista.

«Ma sapeva guardare avanti. Non mi riferisco solo alla famosa immagine con cui chiude “La coscienza di Zeno”, quella profetica idea di un’esplosione nucleare. Dico che se si rilegge il romanzo attentamente, il profilo di quell’omino di fumo, Zeno Cosini, prende forma dentro l’immagine di una città dominata dal commercio e dalla Borsa: le azioni salgono e scendono, la speculazione e i profitti segnano le vite e le vicende».

“La coscienza di Zeno” come romanzo di formazione economica?

«Non si può dire questo. Ma certi particolari, certi tagli di luce, risaltano di più, oggi che lo spread lo guardiamo in faccia. A tutto ciò la letteratura era disabituata. La dimensione economica che cambiò la vita di Zeno Cosini, e dello stesso Svevo, è quella che sta cambiando adesso le nostre vite».

Noi che pensavamo al nascere di un’Europa delle culture, abbiamo invece scoperto l’Europa delle banche.

«Trieste, allora, era una previsione d’Europa. Oggi questo respiro si sente poco».

Perché?

«L’Italia ha dimenticato la funzione delle sue grandi città. Penso soprattutto a quelle in cui ho lavorato».

Scaparro è stato al timone del Teatro di Roma. Ha guidato il teatro alla Biennale di Venezia e ha inventato quel Carnevale. Da molti anni prepara progetti per La Pergola di Firenze. E un rapporto stretto lo lega a Napoli.

«Questa è la mia storia personale, ma non posso dimenticare che proprio queste città, se non altro per il peso linguistico, erano i simboli di un’Italia delle diversità. Diversità che erano una nostra forza. E lo sarebbero ancora perché ci possono aiutare a capire meglio l’Europa delle diversità».

E invece, di chi è la colpa?

«Lo sviluppo della tecnologia e la velocità con cui viaggiano le informazioni, restituiscono un’altra immagine di città, compresa Trieste, che prima erano luoghi d’incanto, da scoprire e da conoscere. La loro funzione è stata assorbita e annullata dalla disattenzione per la cultura. La colpa, beninteso, è anche nostra. Un esempio? Proprio il teatro, dove si sta ancora a discutere di iniziativa pubblica e iniziativa privata, quando importante sarebbe semplicemente riconoscere la sua funzione pubblica».

Il teatro a iniziativa pubblica, quello che genericamente viene chiamato “teatro stabile”, per 50 anni ha svolto un ruolo indispensabile nella formazione dell’identità nazionale.

«Tre cose mi paiono indispensabili per assicurare un futuro del teatro. La fantasia, una casa, un pubblico. Il teatro ‘stabile’ inventato alla fine degli anni ‘40 da Strehler e Grassi dava un tetto e un pubblico alla fantasia. Malgrado tutto, malgrado la crisi, i tagli, oggi la gente a teatro continua ad andare. Quella è la ricetta che dobbiamo di nuovo applicare. Io sono ottimista e vedo che in qualche luogo, in Italia, si fa».

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