Massacra la moglie e la figlia di 6 anni
PORDENONE. «Venite, è successo qualcosa. C’è sangue dappertutto». Poco prima delle 3 di ieri notte, dalla sala da pranzo dell’appartamento, Abdelhadi Lahmar, 39enne di origine marocchina, ha telefonato al 113. A sirene spiegate le volanti della polizia si sono precipitate al numero 22 di via San Vito, dove dal 2010 Lahmar viveva con la moglie, Touria Errebaibi, 30 anni, e la figlioletta Hiba, 6 anni. L’uomo li attendeva seduto sugli scalini d’ingresso dell’edificio, scosso e in stato confusionale. Era ancora sporco di sangue, anche se si era cambiato d’abito lasciando in casa il pigiama lordato. Dietro quella porta al piano ammezzato, gli agenti hanno trovato l’orrore. Il talamo nuziale trasformato in mattatoio, capolinea dell’inferno familiare in cui è maturata una tragedia annunciata. Riversa supina sulle lenzuola intrise di sangue, schizzato anche sulle pareti e con una grossa macchia al centro del letto, Touria, in pigiama. Cinque i fendenti inferti alla donna al capo con un’accetta dall’impugnatura lunga 40 centimetri. Nessuna ferita da difesa.
Una coperta come sudario per Hiba, ritrovata senza vita nella sua cameretta, separata dalla stanza dei genitori da un angusto corridoio, che si affaccia anche sulla porta del bagno. Un gesto di pietà postumo per coprire la profonda lacerazione di collo e carotide che ha ucciso la piccola all’istante. Per la bimba è stata scelta un’arma differente: un grosso coltello da cucina con lama affilata, lunga 28 centimetri, con cui Hiba è stata sgozzata. La pressione esercitata è stata tale da decapitare, quasi, la piccola.
Accetta e coltello sono stati messi sotto sequestro. Sigilli anche all’appartamento e alla Renault Clio della donna, parcheggiata nel cortile sul retro. L’autopsia, che sarà effettuata oggi all’ospedale di Pordenone dal medico legale Lucio Bombenm stabilirà l’esatta sequenza del duplice omicidio. Sul posto gli uomini della scientifica, il medico legale, gli agenti della squadra mobile e il pm Federico Facchin. Lahmar ha seguito docilmente i poliziotti in Questura, dove è rimasto per l’intera mattinata. L’interrogatorio di garanzia è durato un’ora. Lahmar ha ricostruito i momenti precedenti e successivi alla tragedia, compreso il litigio con la moglie. Ma ha detto di non ricordare nulla del delitto. Quindi è stato portato in carcere a Pordenone, in attesa dell’udienza di convalida dell’arresto. Accusa: omicidio plurimo continuato e aggravato.
Nella sala da pranzo la tavola era ancora apparecchiata per la cena, consumata da tutti e tre insieme intorno alle 19. Sul desco, bibite e numerose scatole di medicinali. Fra le 22 e le 23, coricata la piccola, i genitori sono andati a dormire. Poi, l’ennesimo alterco. Viene collocato intorno alle 2.30 il tragico epilogo. Appoggiato sul divano all’ingresso, un disegno di Biancaneve e i sette nani: l’ultimo disegno di Hiba, colorato con i pennarelli a scuola, mentre aspettava che i genitori la venissero a prendere, al ritorno della gita al parco di San Floriano.
Segni di una quotidianità familiare serena solo all’apparenza. Sono quasi le otto del mattino quando via San Vito ricomincia a popolarsi. Le vicine di casa escono in bicicletta per accompagnare i figli a scuola, alla primaria Padre Marco d’Aviano dove Hiba frequentava la prima elementare. La voce si sparge. E subito amiche e conoscenti raccontano agli uomini della Mobile, coordinati da Massimo Olivotto, delle tensioni familiari. Degli alterchi frequenti e delle grida che si udivano dall’appartamento dei Lahmar. L’ultimo, proprio martedì notte, poche ore prima del duplice omicidio. Di quel marito disoccupato, che Touria, con il suo lavoro di lavapiatti al ristorante Al Gallo, manteneva e da cui voleva divorziare. Delle ripetute minacce di morte e delle percosse che la trentenne marocchina ha raccontato di aver subito. L’ultima, solo una settimana prima, quando il marito, dal Marocco dove si era trasferito dallo scorso 23 dicembre, le aveva preannunciato: «Quando torno, giovedì, ti ammazzo, così mangio gratis».
Touria aveva condiviso le sue paure con le amiche ma anche con l’associazione Voce donna. Il giorno prima di essere uccisa era andata dai carabinieri ma non aveva voluto sporgere denuncia contro il marito: aveva paura che lui, per ripicca, le portasse via la figlia in Marocco.
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