Mario Greco: «Le Generali restano a Trieste»
TRIESTE. Un concetto semplice. Siamo a Trieste dal 1831 e ci rimaniamo. Mario Greco, da agosto amministratore delegato di Generali, pronuncia l’impegno senza remore e in qualche modo prevenendo un tema che gli sarebbe altrimenti sollevato a Londra il 14 gennaio prossimo. Dinanzi all’élite della comunità finanziaria europea fra un mese, nel contesto del nuovo piano strategico di gruppo, Greco è pronto a sostenere le ragioni per cui il cuore del Leone deve e può restare là dove è stato impiantato. Meno semplice, va da sé, appare l’interpretazione del rapporto – ondivago e tanto spesso lasciato in ombra – tra un big player mondiale qual è Generali e una città che fu capitale e oggi di frequente con attitudine da adolescente gioca sul ciglio del declino. «Siamo determinati a mantenere a Trieste il nostro quartier generale, ovvero le funzioni tipiche di vertice di un grande gruppo» sottolinea Greco.
Ma per quali ragioni concrete e operative la Compagnia ritiene di conservare a Trieste la propria direzione generale?
Abbiamo riscontrato almeno tre vantaggi specifici. Il primo valore consiste nella qualità delle persone. Le competenze in materia di statistica, finanza, matematica sono un patrimonio formidabile, forse unico e di sicuro preziosissimo che Trieste può vantare grazie alla sua storia e al suo sistema formativo. Il nostro è un business che si costruisce giorno per giorno sulla qualità dei dipendenti. Un altro aspetto di grande importanza attiene all’attenzione che la città ha per noi. Osservo infine che, dopo la Regione e il Comune, siamo il primo datore di lavoro e che, se tale fattore costituisce per noi un richiamo di responsabilità, rappresenta pure un dato di vantaggio connesso a tale status di leadership in termini di legame con la comunità e il territorio.
Non mancano tuttavia, anche tra i vostri investitori, coloro che sostengono come Trieste sia marginale e affatto efficiente, in termini di costi e di logistica, per l’organizzazione e gestione di Generali.
Posso obiettare con facilità e per esperienza diretta che gran parte dei nostri concorrenti sono in situazioni simili. A Trieste godiamo di una stabilità che non avremmo a Milano o a Londra. A un trasloco non pensiamo in alcun modo.
La sede di Trieste comunque sconta evidenti fattori di svantaggio, primo tra tutti una accessibilità sempre più difficile.
Sono problemi veri. Sul versante dei trasporti, i treni sono davvero insufficienti. Dovrei dire che non ci sono. Pure gli aerei sono limitati. Potremmo pure obiettare, peraltro, che il tema dei collegamenti aerei internazionali e intercontinentali è un problema più italiano che triestino. In effetti, quello che ci limitiamo a chiedere alle istituzioni è di mettere dei treni veri, che garantiscano insomma dei collegamenti efficienti con Milano e con Roma. La situazione attuale è insufficiente, immaginarsi se è tollerabile l’idea di tagli ulteriori. Ma al presidente Tondo e al sindaco Cosolini diciamo pure che è vitale assicurare l’attuale livello di istruzione e formazione, poiché l’Italia sta invece perdendo di vista la necessità di investire su università e scuole superiori. Non chiediamo molto, per restare a Trieste.
Se siete determinati a mantenere il quartier generale a Trieste, quali contenuti ha dunque il progetto di riorganizzazione radicale che state mettendo a punto per le sedi milanesi?
So bene che si dice che staremmo preparando a Milano la sede della nostra prossima direzione generale. A Milano, invece, nell’ambito del progetto City Life in via di realizzazione là dove vi era la fiera, terremo per noi un intero grattacielo. Dopo il 2015 vi concentreremo tutte le società e gli uffici che oggi abbiamo sparsi a Milano, ossia una rilevante massa critica. Ma questo non cambia i pesi relativi e le funzioni tra le sedi di Milano, Roma, Mogliano Veneto e Trieste. A Milano non sposteremo altre persone. Lo ribadisco: la storia e le radici hanno la loro importanza, la nostra società oggi è la condensazione di quel che è stata nei decenni trascorsi. Non abbiamo alcun interesse pratico a spostarci fuori da Trieste. E poi non si sposta la sede di una società, se ne ammazzerebbe l’anima.
Caso mai, e non in una logica di provocazione, vi sarebbe da chiedere se un grande gruppo internazionale trova in Italia una sua ragione di rimanere.
Qui sta in effetti la nostra vera scommessa, ossia dimostrare che è possibile gestire una multinazionale dall’Italia. Noi siamo determinati a crederlo e a farlo. Gli ostacoli presenti nel nostro paese per chi fa impresa sono noti, noi ci facciamo carico di rendere visibile e di praticare che una azienda globale può crescere anche dall’Italia. Del resto, il nostro paese è stato sempre apertissimo al mondo e alle esportazioni, con un indice di internazionalizzazione elevato. Ci siamo poi chiusi e oggi paghiamo tale chiusura, anche noi di Generali la paghiamo. Ma è possibile vincere il declino, bisogna avere la volontà collettiva di rilanciare questo Paese. Nulla è ineluttabile e ci siamo da qualche tempo incamminati su una via corretta.
Vale a dire che valuta positivamente il lavoro del governo in carica?
Eravamo finiti ai margini, Monti ha il grande merito di averci riportato ai tavoli mondiali. E la reputazione è il primo dei valori.
Ma in tema di crescita non emergono affatto dati o indizi positivi.
Vero. Monti ha dovuto concentrare ogni energia nell’evitare il fallimento, mettendo in sicurezza i conti. Ma la questione della crescita e del declino riguarda tutti, non solo il governo in carica. La ricchezza prima del paese sono le sue aziende e non le sosteniamo abbastanza, il loro successo dovrebbe stare a cuore a tutti perché sono l’unico generatore di lavoro e di ricchezza.
Sta mettendo in questione la possibilità di risanare e rilanciare l’Italia?
Vero che abbiamo un debito che pesa il 125% del prodotto interno lordo, ma in pari tempo abbiamo uno stock di ricchezza ineguagliato e un avanzo primario nella finanza pubblica capace di indicare come vi sia lo spazio per risalire la china. Disponiamo di capacità intellettuali, di un patrimonio di prodotti innovativi, di un ceto imprenditoriale diffuso e radicato. La nostra situazione non è affatto irrecuperabile, tuttavia dobbiamo lasciare alle spalle rigidità e zavorre. Tra l’America del 2008 e quella del 2012 vi è una differenza abissale, noi siamo sempre impelagati nei nostri vizi e sempre divisi negli interessi personali, privati, generazionali. Come se fossimo stati appagati da un benessere estremo, tale da sedare la spinta alla crescita e al nuovo tipica dei primi 30-40 anni del dopoguerra, quando c’era l’orgoglio di affermare il Paese nel mondo. Mi ostino a credere che sapremo consegnare il testimone ai giovani senza pensare solo alla difesa dei nostri interessi e diritti acquisiti. Quando ero giovane, avevo un mondo davanti che offriva molte opportunità. Vorrei consentire le stesse chances a chi mi succede.
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