Marco Risi: «Racconto l’Italia che va all’indietro»

Il regista ospite a Pordenone e Gorizia con il suo nuovo film ” cha cha cha”, un noir sull’Italia corrotta e su chi trama dietro le quinte
Di Elisa Grando

di Elisa Grando

C’è una Roma piena di sangue, ombre e segreti nell’ultimo film di Marco Risi. Una città sfuggente, dominata da una ragnatela di poteri nascosti che lega politica, affari e criminalità. È il simbolo di un’Italia in cui «vince chi sa “scivolare” meglio», come in alcuni balli in voga una volta: ecco perché il regista ha intitolato “Cha cha cha” questo thriller-noir che, dopo “Mery per sempre”, “Il muro di gomma”, “Il branco” e “Fortapàsc”, continua il filone del suo cinema focalizzato sulla realtà italiana, stavolta scandagliata attraverso le atmosfere del film di genere.

Marco Risi sta per arrivare in regione per un doppio appuntamento: questa sera alle 21.30 presenterà “Cha cha cha” a Pordenone, in Piazza Calderari, primo protagonista di “Al cinema sotto le stelle”, la rassegna di proiezioni all’aperto del Comune di Pordenone organizzata da Cinemazero (a ingresso gratuito, ma con ritiro del coupon dalle 20.30 direttamente in piazza), mentre domani a Gorizia parteciperà alla conferenza stampa di presentazione del Premio Amidei – Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica di Gorizia (in programma dal 19 al 25 luglio) in qualità di ospite e giurato.

In "Cha cha cha" l’investigatore privato Corso (interpretato da Luca Argentero) indaga sull’omicidio del figlio di un’attrice (Eva Herzigova) sposata con un potente avvocato (Pippo Delbono). Corso agita acque troppo torbide, tanto che è addirittura la polizia a mettersi di traverso per intralciarlo. In definitiva Risi, racconta un’Italia corrotta, in cui le istituzioni non si fanno scrupolo di eliminare chi diventa scomodo.

Si è ispirato a qualche fatto di cronaca particolare?

«A tanti. Il primo è sicuramente quello di Sergio Castellari (ex dirigente delle partecipazioni statali, ndr): negli anni ’90 il suo corpo senza vita venne ritrovato in un campo alla periferia di Roma, con accanto una bottiglia di whisky e una pistola col grilletto ancora alzato. Fu considerato un suicidio, ma con molti aspetti oscuri. E poi ho pensato alle intercettazioni, ai potenti che manovrano il Paese stando dietro le quinte. Il personaggio di Delbono rappresenta proprio uno di questi personaggi che, nell’ombra, influenzano politici e affaristi. E quando si sporcano un po’ troppo vengono fatti fuori dal gioco».

Nel suo film è proprio lo Stato a eliminare potenziali minacce interne…

«Sentiamo spesso parlare di “parti deviate dello Stato”, anche per alcune responsabilità nelle stragi di Piazza Fontana, Piazza della Loggia, l’Italicus o alla stazione di Bologna. Ma sempre di Stato si tratta. Alcuni, a loro opinabile giudizio, pensano di agire nell’interesse del Paese. Andreotti, per esempio, pensava di fare il bene dell’Italia quando cercava di venire a patti con una parte della mafia siciliana. Ma sono responsabilità che poi restano addosso».

Allora, lo Stato sta dalla parte del bene o del male?

«Da quello della convenienza. Nel film l’investigatore Argentero chiede al poliziotto corrotto Claudio Amendola: “Tu stai dalla parte dello Stato. Ma quale Stato?”. È una domanda che feci anche ad Antonio Ingroia qualche anno fa: “Le piace lo Stato per cui sta lavorando?” Qualche perplessità ce l’aveva».

Perché per affondare nel marcio del “sistema Italia” ha scelto la strada del noir?

«Mi piacciono i film di genere, quelli di Jean-Pierre Melville e il noir americano anni ’40 e ’70: ho immerso quel tipo di investigatore privato nell’atmosfera romana, pericolosa e dark. Un’operazione stimolante ma rischiosa: non siamo più abituati a guardare film di genere».

Il titolo “Cha cha cha” farebbe pensare a una commedia…

«Il cha cha cha era in auge fino agli anni ’60, prima di essere schiacciato dal twist. Nel film ritorna: come dire che, in Italia, i cambiamenti sono sempre molto lenti. Per ballarlo poi bisogna saper scivolare bene, si fanno due passi avanti e due indietro. La stessa cosa accade in Italia, solo che di solito facciamo un passo avanti, due indietro e molti laterali. In più, Roma è una città molto “scivolosa” dal punto di vista della politica, degli affari, e degli intrighi».

A 33 anni dalla strage di Ustica e a 22 da “Il muro di gomma”, il suo film-inchiesta, una verità processuale univoca sul disastro aereo non c’è ancora. Cosa pensa sia cambiato oggi rispetto a quando, nel 1990, ha scritto la sceneggiatura con Andrea Purgatori?

«Pochissimo. Si sa con più certezza che c’è stata una responsabilità dei francesi e degli americani, almeno nel coprire la battaglia aerea in corso sui cieli di Ustica, come noi ventilavamo nel film. Del resto “Il muro di gomma” era estremamente documentato, Purgatori era proprio il giornalista che ha dato il via all’indagine dopo aver ricevuto una telefonata da un controllore di volo, come mostriamo anche nel film».

Ad essere cambiato molto invece è il panorama dell’informazione, soprattutto con la nascita dei social network. Lei è un frequentatore di Twitter. Cosa ne pensa?

«Ha alcuni spunti interessanti, ma rischia di diventare un serraglio di opinioni un po’ superficiale. Alcuni che leggo, come il regista Giovanni Veronesi, mi divertono, altri s’improvvisano impegnati politicamente, altri ancora sono incapaci di formulare pensieri. È come mandare sms a centinaia di persone che leggono: non so se abbia molto senso. Certo, serve per farsi un po’ di pubblicità. Oggi è difficile anche solo comunicare un film al pubblico, distratto da mille altri stimoli».

Però lei continua a fare il regista, come suo padre Dino Risi. Qual è la lezione più grande che le ha lasciato?

«Mio padre era una persona spiritosa e intelligente, che sapeva dare critiche spietate. Solo a un certo punto era diventato un mio spettatore benevolo, e non per tutti i film. Mi dava lo stimolo per cercare di fare meglio: non penso a lui continuamente però è rimasto un punto di riferimento come figura di spettatore critico ma giusto. Da lui ho imparato una cosa fondamentale: non prendersi troppo sul serio. Non mi piacciono i registi che pontificano».

È vero che sta già cominciando un nuovo film?

«Sì: due volte alla settimana vado a giocare a pallone in un campaccio di periferia con l’Italia Attori, che una volta era la squadra di Pasolini. Il film s’intitolerà “Tre tocchi” e parlerà proprio dei ragazzi che giocano con me, tutti attori più o meno fortunati, con sei storie plasmate sulle loro vite vere, drammatiche ma molto divertenti».

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