«Maestro barone» d’impareggiabile eleganza

Per decenni seppe districarsi al meglio nella conduzione della macchina teatrale
Con la scomparsa di Raffaello de Banfield, Trieste perde non solo uno dei suoi personaggi più conosciuti, uno dei suoi notabili, ma anche uno dei più attendibili rappresentanti e testimoni di una città ritenuta «musicalissima». Da rampollo di una delle famiglie mitteleuropee più in vista, era forse destinato a vivere altrove. Invece, incaricato nel '72 della direzione artistica del Teatro Verdi e chiamato alle connesse e precise responsabilità, non solo rispose «obbedisco», ma tenne loro fede per un quarto di secolo.


La funzione del direttore artistico era delicata, difficile da sostenere. Costretto a fare i conti col sovrintendente, col consiglio d'amministrazione, con l'opinione pubblica e con la critica musicale, incarnava il classico vaso di coccio. Una iattura per alcuni, censurati senza posa, guai a non finire per conflitti d'interesse e basterebbe ricordare i casi Mannino, Vlad, Chailly, Turchi, Zafred. Come non bastasse, un certo giorno scoppiò uno scandalo dai titoloni quali «Enti lirici alla sbarra!». Trieste ne rimase fuori, e tutti, con una punta d'invidia, a recitarci: «Beati voi, lassù a Trieste, che avete Banfield!». Il «Maestro barone» seppe assolvere al suo compito sempre con misura e grande signorilità. Con puntiglio, assiduità, osservando, ascoltando e riferendo. Annuiva alle direttive del sovrintendente Giampaolo de Ferra, lasciava anche fare al più navigato Fulvio Gilleri, magari faceva proprie decisioni altrui, ma sempre volando alto.


La sua «prima volta» in veste dirigenziale è leggenda. Ad una delle prime prove d'un «Ballo in maschera», improvvisamente, con uno scatto da centometrista, si catapultò sul palcoscenico per indicare al capo macchinista un quadro appeso storto. Qualche sorrisino fra gli addetti ai lavori, ma da quel momento scaturì la sua fama: «No ghe scampa una!...» Esteta raffinato e amante del bello, di primo acchito sembrava propenso alla recitazione, privilegiando anche nella conversazione amichevole i toni aulici, eppure davvero si commuoveva quando la musica lo toccava nel profondo, eppure la sua devozione religiosa non fu solo patina superficiale.

Possedeva un'impareggiabile dote per evitare le grane e schivare gli agguati. Un giorno, per protesta contro una mancata scrittura, una cantante arrivò ad incatenarsi ad un pilone di Piazza dell'Unità. Nell'infuocata diatriba che ne seguì, egli fu l'unico del teatro a non essere da lei insultato. Forse perché era anche l’unico in teatro a praticare il baciamano a tutte le signore, contestatrice compresa.


La sua prima apparizione al Verdi fu una sorpresa per il pubblico triestino. Arrivò nel '56 con un trittico: la sua «Una lettera d'amore di Lord Byron», «Allamistakeo» di Viozzi e «Poema coreografico» di Bugameli . Nella foto di gruppo, scattata da De Rota, solo il giovane direttore Glauco Curiel regge il confronto, perché il sorriso del musicista barone è radioso, di un'eleganza impareggiabile il suo smoking, e sembra quasi di sentire le parole che Viozzi rivolge a Bugamelli: «Piovi sempre sul bagnà!...» alludendo al più giovane collega che, oltre ad essere bello e ricco di suo, era l'unico ad incassare somme da favola per diritti d'autore. Infatti il suo balletto «Le Combat» stava già girando il mondo ed aveva superato le mille repliche.

Claudio Gherbitz
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