«Ma per Trieste resto sempre quel mona de becher»

di Bruno Lubis «A Milano sono il cavalier Rocco, a Trieste resto sempre quel mona de becher», così Nereo Rocco sintetizzava il suo rapporto controverso con la città natale. E davvero tra l’ex...

di Bruno Lubis

«A Milano sono il cavalier Rocco, a Trieste resto sempre quel mona de becher», così Nereo Rocco sintetizzava il suo rapporto controverso con la città natale. E davvero tra l’ex campione e goleador alabardato, poi allenatore di successo, ebbe con Trieste un rapporto complicato. Poco più che trentenne, prese in mano le redini della Triestina in difficoltà – appena finita la guerra, giocatori divisi tra campionati italiani e jugoslavi – e la portò al miglior risultato della storia: seconda assieme a Milan e Juventus, dietro di 11 punti solo dal grande Torino di Mazzola, Loik, Bacigalupo, Ossola e Grezar.

Poi dopo, la memoria nello sport è sempre cortissima, l’allenatore che aveva inventato il libero (ma a Salerno analoga trovata ebbe per autore Gipo Viani che, in coppia con Rocco, fu ideatore del Milan che vinse la Coppa dei Campioni nel 1963) fu esonerato. Per tornare in auge, Rocco emigrò in Veneto, prima a Treviso e poi a Padova dove ottenne successo e plauso da tutti quelli che amavano il calcio. A Padova con i vecchioni Pin, Scagnellato, Blason libero, e con i più pimpanti Pison, Rosa, Hamrin, Rocco sapeva come battere anche le grandi del calcio italiano. A chi gli augurava prima di una partita, che vinca il migliore, lui rispondeva «speremo de no». Umile e arguto come Bertoldo.

Nei momenti di amarezza - li ebbe anche al Milan, alla Fiorentina e a Torino - Rocco tornava sempre a Trieste, nella casa di via D’Angeli, nella sala da pranzo della siora Maria. L’osteria de Jeti a qualche metro dal cancello di casa e da Jeti passavano gli amici di sempre, a chiacchierare e a giocare a carte.

Ma dopo poche settimane, Rocco sentiva i fastidi di chi proprio non riesce a sopportare di starsene fermo. Cercava incontri lontano da Trieste e li trovava con facilità, finchè partiva di nuovo per altre esperienze. Demiurgo al Milan dei Rizzoli, allontanato Viani a causa della assurda gelosia del manager di Nervesa della Battaglia, Rocco aveva sempre un pensiero per la Triestina. Si informava della squadra, della società. Addirittura fece in modo che i virgulti rossoneri Paina, Sigarini e Marchesi, oltre all’esperto Giacomini, fossero deviati in maglia alabardata. Ma i tifosi non ebbero che critiche per il regalo di Rocco: nemo propheta in patria. E la dirigenza alabardata non fu certo più tenera nelle critiche, sussurrate dietro le spalle, al solito. Sigarini troppo piccolo, Paina troppo pesante, Marchesi fresco di infortunio e Giacomini troppo lento. Beh, Rocco lo sapeva che Giacomini era come l’accelerato Padova-Monselice ma per la serie C era un regista coi fiocchi. Insomma, Rocco e Trieste non si capivano.

Solo dopo morto el Paròn trovò comprensione negli appassionati di pallone. I più – gli anni erano passati e non invano – lo portavano a esempio ed erano felici che Rocco, esprimendosi sempre in dialetto, fosse diventato personaggio di primo piano nel calcio mondiale.

Gli intitolarono lo stadio, mastodontico e costoso oltre la decenza, ma importante. E gli organizzarono una mostra. Lui, Bertoldo nell’animo ma orgoglioso di trovare finalmente riconoscimenti anche nella sua città, forse direbbe che tutto sommato a Trieste non era più quel mona de becher.

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