L’Università di Trieste va a far lezione in fabbrica
TRIESTE. Uscire dalle stanze dell'accademia ed entrare in ufficio e in officina, trasformandoli nella scena di lezioni di cultura umanistica per chi in azienda ci va ogni giorno a lavorare: operaio, impiegato o ingegnere che sia. Lo sta facendo, con risultati decisamente imprevisti, un gruppo di docenti del Dipartimento di studi umanistici dell'Università di Trieste, con una sperimentazione in sette lezioni organizzate fra marzo e aprile dopo la fine dell'orario di lavoro. Gli ideatori avrebbero già festeggiato vedendosi dinanzi a una ventina di allievi volontari. E invece se ne sono trovati davanti il triplo: pedagogia, letteratura, storia, teatro e filosofia hanno fatto breccia, a costo di rimanere in azienda due ore in più dopo la timbratura, al di fuori dunque dell’orario di lavoro, per tuffarsi in mondi divenuti lontani dopo la scuola. Per non considerare più la propria formazione di adulti un mero aggiornamento tecnico sulle proprie mansioni.
L'hanno chiamata "Modul-life: scaffali, palcoscenici e narrazioni", perché l'iniziativa si tiene all'interno della Modulblok, leader nella produzione di grosse strutture metalliche per l'organizzazione logistica dei magazzini, con i suoi 120 addetti nei due stabilimenti di Pagnacco e Amaro. La dirigenza ci ha subito creduto e i dipendenti hanno seguito a ruota, tanto che il singolo ciclo di sette lezioni è stato subito raddoppiato, per accontentare entrambe le sedi.
Il proprietario Mario Savio si è fatto convincere e si dice entusiasta di un esito che non dava per scontato, nato in un contesto evidentemente fuori dal comune. Il direttore dello stabilimento di Amaro, Mario Di Nucci, si sente non a caso «un ingegnere con la vocazione del formatore, con una lunga esperienza scout alle spalle: la vita non può trascorrere nascosta in fabbrica, perché i lavoratori sono qualcosa di più ampio di quello che sanno fare a livello professionale». Di Nucci conosce «in profondità le storie di questa gente, che sente il bisogno di raccontarsi in un ambiente che non sempre lo permette. Non so se siamo un caso di imprenditoria illuminata, ma qui c'è terreno fertile da seminare». E l'ingegnere si apre in un sorriso, parlando di uno degli operai che aspetta la pensione per laurearsi in Storia e del tecnico che dopo una lezione è corso a comprarsi Primo Levi: «Magari inespresso, ma c'è bisogno di aprirsi a mondi come il teatro e la letteratura: i saperi umanistici non possono essere marginalizzati».
E così i docenti dell'Università di Trieste vanno in fabbrica a svolgere la loro "terza missione", quella dell'alta divulgazione di un sapere scientifico troppo spesso rinchiuso nelle aule dell'accademia e mediato con difficoltà a un pubblico di non specialisti, arduo da intercettare nell'era della comunicazione veloce. Più di metà dei dipendenti si è fatta coinvolgere di buon grado: 30 impiegati e dirigenti su 35 negli uffici di Pagnacco, 40 delle 80 tute blu dello stabilimento di Amaro, che alla verniciatura sospendono il turno serale e si prendono due ore di ferie per tornare poi a finire la giornata accompagnati dalle parole di Pirandello o Shakespeare.
Il docente di pedagogia, Matteo Cornacchia, spiega che al centro dell'iniziativa c'è «il racconto di sé stessi attraverso varie prospettive», dalla formazione dell'individuo alla memoria storica dei lavoratori, dall'autorappresentazione nel teatro alle narrazioni dei grandi letterati che hanno descritto il lavoro, dalle strutture discorsive del racconto di sé al confronto fra il linguaggio shakespeariano e quello dei nuovi media. Un percorso orchestrato dallo stesso Cornacchia, dalla storica Tullia Catalan, dal linguista Fabio Romanini, dallo storico del teatro Paolo Quazzolo, dal filosofo Paolo Labinaz e dalla studiosa di letteratura inglese Laura Pelaschiar.
Secondo Cornacchia, «la formazione in contesti lavorativi interessa tanto alle aziende quanto ai dipendenti solo in termini di utilità pratica. Crediamo però che servano anche approcci formativi slegati dal profitto: percorsi disinteressati, che provocatoriamente definisco inutili, ma che invece servono alla crescita culturale ed esistenziale del lavoratore». Un'idea di business sociale, sul modello adottato negli anni Sessanta da Adriano Olivetti, che «porta gli studi umanistici nel luogo da essi più distante: la fabbrica», continua Cornacchia, per il quale «il desiderio di cultura riguarda anche persone con interessi diversi o bassi gradi di istruzione: per renderci accessibili abbiamo adattato in modo creativo il nostro registro espressivo e un bicchiere di vino ha sciolto la distanza culturale fra mondi diversi. Un'esperienza che ci ha arricchito tutti». C’è da sperare non resti un caso isolato.
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