L’Ungheria di Orban punta sull’ex Aquila per un terminal merci

TRIESTE Dopo trent’anni di destino sospeso, l’area ex Teseco di Aquilinia va incontro a una nuova speranza di rinascita. La bonifica del terreno inquinato e il rilancio in chiave portuale passano da Budapest, con il governo ungherese di Viktor Orban pronto a chiudere un accordo per subentrare alla concessione sessantennale, che l’Autorità portuale di Trieste aveva accordato nel 2014 a Teseco, azienda esperta di risanamenti ambientali.
La zona è occupata dalle rovine della raffineria fondata nel 1934 e arrivata a fine vita nel 1987. Sono seguiti anni di incertezza, fino all’affidamento alla società toscana, il cui progetto consisteva nel risanamento del comprensorio, nella costruzione di un terminal traghetti e nella successiva vendita a un operatore marittimo attivo nel traffico ro-ro.
L’impresa ha bonificato 600 degli 800 mila metri quadrati previsti, senza concludere però l’intervento nella parte destinata allo scalo, che non ha mai visto la luce e che potrebbe ora nascere grazie alle relazioni fra l’Autorità portuale di Zeno D’Agostino e il governo ungherese, che sta ora trattando direttamente con Teseco.
Tutto comincia dal viaggio organizzato nel 2017 a Budapest, dove l’Autorità convince i magiari della bontà di un investimento a Trieste. La presenza di traffici ungheresi non era una novità per l’Adriatico settentrionale, ma fino a quel momento il governo Orban aveva guardato esclusivamente al porto di Capodistria, tanto da mostrarsi intenzionato a investire duecento milioni nel raddoppio del collegamento ferroviario con Divaccia, oggi sovraccarico e diventato dunque un imbuto per le operazioni di smistamento delle merci.
Il confronto con l’Autorità dura per tutto il 2018 e alla fine spunta la soluzione dell’ex Teseco, ritenuta ottimale da Budapest per poter progettare uno sviluppo autonomo e senza la possibile convivenza con altri investitori. Le cose si fanno serie a novembre, quando Orban annuncia l’intenzione di rinunciare a Capodistria e di voler trovare a Trieste lo sbocco al mare. Frasi giudicate intempestive da D’Agostino che, pur davanti a una trattativa vicina alla chiusura, parla di un interessamento non ancora sfociato in fatti concreti.
Ma mentre si discute del possibile sbarco di capitali cinesi nel porto, a fine anno il governo ungherese punta l’attenzione sulla possibilità di rilevare la società Aquila, controllata da Teseco: il subentro riguarda le aree di proprietà e le zone demaniali in concessione, ma potrebbe includere anche altre aree limitrofe. La superficie si estende per una trentina di ettari, affacciati sul mare e serviti da una linea ferroviaria collegata alla stazione di Aquilinia, il cui restauro dovrebbe essere concluso entro il 2020.
Il tutto sarà gestito in regime di porto franco, come nei capannoni ex Wärtsilä.
Nulla si sa ancora sul valore dell’operazione per l’acquisto della parte di proprietà di Teseco, ma di certo c’è che alla cifra si aggiungerà un altro centinaio di milioni per bonifica e trasformazione in terminal portuale. Meno di quanto costerebbe l’intervento sulla Capodistria-Divaccia, il cui progetto è considerato a Budapest di incerta realizzazione per le difficoltà della Slovenia a reperire i due miliardi necessari.
Contatti istituzionali sono in corso fra Ungheria e Italia per delineare iter e tempi di un risanamento ambientale che deve ripartire dalle caratterizzazioni. L’intesa è legata anche e forse soprattutto a questo passaggio. L’utilizzo del terminal resta tuttavia da chiarire. Per la sua gestione Budapest è pronta a far partecipare operatori privati, ma nulla trapela su questo fronte.
Con i container monopolizzati dal molo VII e il traffico ro-ro già presente in porto, è plausibile che lo scalo si concentri su materie prime e rinfuse solide da importare in Ungheria e da qui in Est Europa. Difficile dire se potrà svilupparsi una collaborazione con realtà come Samer o Adriaterminal, in passato interessate all’area. —
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