L’ultimo tassello della storia dell’immunoterapia dei tumori

Mauro Giacca
Mauro Giacca
Mauro Giacca

TRIESTE Ci sono sostanzialmente due modi per distruggere un tumore. Il primo è quello di cercare di uccidere direttamente le cellule tumorali. E’ il concetto della chemioterapia, nata subito dopo la seconda guerra mondiale, che sfrutta le differenze tra cellule normali e tumorali per colpire in maniera selettiva queste ultime. L’altro modo è quello di disinteressarsi delle cellule tumorali, ma di educare e stimolare il sistema immunitario, in modo che sia questo a riconoscerle ed eliminarle.

A metà degli anni ’80, Steven Rosenberg, al tempo brillante chirurgo oncologico al National Cancer Institute dell’Nih a Bethesda, vicino a Washington, e ora figura iconica della medicina, ebbe l’idea di isolare i linfociti presenti nelle masse di melanoma che asportava chirurgicamente e di coltivarli in laboratorio. Erano anni d’oro per la ricerca in questo campo. Robert Gallo, sempre a Bethesda, aveva appena scoperto un fattore di crescita, l’interleuchina-2, che consentiva di moltiplicare i linfociti. In un famoso articolo sul New England Journal of Medicine nel 1988, Rosenberg descrisse come i linfociti prelevati dal melanoma ed espansi in laboratorio potevano essere re-iniettati nello stesso paziente da cui provenivano, e portavano a una marcata riduzione delle metastasi. Chiamò queste cellule TIL, per Tumour Infiltrating Lymphocytes, e fu la prima dimostrazione dell’effetto antitumorale dei linfociti nell’uomo.

L’anno successivo, per dimostrare che questi TIL erano effettivamente in grado di raggiungere e penetrare nelle masse tumorali, inserì in questi linfociti un virus modificato per marcare geneticamente il loro DNA prima di espanderli in laboratorio. Una volta somministrati al paziente, trovò questi linfociti geneticamente marcati all’interno delle masse tumorali, dimostrando così la capacità di queste cellule di riconoscere in maniera le cellule tumorali. Fu l’inizio dell’immunoterapia adottiva dei tumori.

La scoperta che in un paziente che sviluppa un tumore esistono linfociti in grado di riconoscere e infiltrare il tumore stesso sollevò però immediatamente un problema: perché questi linfociti non erano in grado spontaneamente di distruggere il tumore stesso? Risultò subito evidente che dovevano esserci dei meccanismi che bloccavano il loro effetto. Fu così che negli anni ’90 furono scoperte una serie di proteine, espresse sulla superficie delle cellule tumorali, che sono in grado di inibire l’effetto antitumorale dei linfociti.

Queste proteine soppressive sono oggi chiamate collettivamente “proteine del checkpoint immunitario”, e comprendono fattori come CTL4-Ig, la prima a essere scoperta già alla fine degli anni ’80, e PD-1, quella contro cui i principali farmaci attuali sono indirizzati. Il primo anticorpo monoclonale in grado di contrastare questi meccanismi inibitori fu sviluppato nel 2011, seguito da molti altri negli anni seguenti. Ci sono oggi più di 3000 sperimentazioni attive con questi trattamenti, che rappresentano 2/3 di tutte le sperimentazioni in oncologia. James Allison e Tasuku Honjo hanno vinto il premio Nobel per la Fisiologia e Medicina nel 2018 per le loro scoperte in questo campo.

L’ultimo tassello in questa storia esaltante dell’immunoterapia dei tumori è ancora più recente. I linfociti di Rosenberg devono essere prelevati dal tumore stesso, e poi possono essere espansi in laboratorio, ma è difficile ottenerne quantità sufficienti per una terapia efficace, e la loro specificità non può essere controllata. Ecco allora l’idea geniale di trasformare un qualsiasi linfocita di un paziente in un linfocita antitumorale. Dal momento che un linfocita riconosce il proprio bersaglio tramite uno specifico recettore presente sulla sua superficie, basta cambiare questo recettore e lo stesso linfocita può essere indirizzato su un altro bersaglio desiderato. All’inizio degli anni ‘90 furono allora sviluppati i primi recettori sintetici, chiamati CAR (chimeric antigen receptor), indirizzati contro le cellule tumorali; una volta inseriti all’interno di qualsiasi linfocita T prelevato dal sangue, questi lo trasformavano in un linfocita anti-tumorale. La tecnologia delle CAR-T ha consentito un salto straordinario nella terapia contro alcuni tipi di leucemie e linfomi: pazienti che avevano fallito qualsiasi altra forma di terapia sono stati completamente guariti con questo approccio. Sono già quattro le terapie CAR-T approvate per l’uso clinico dalle autorità regolatorie in Europa e negli Stati Uniti.

Una cavalcata eccitante, quindi, quella dell’immunoterapia dei tumori negli ultimi 30 anni. E il percorso non è ancora finito: l’obiettivo attuale è quello di migliorare la tecnologia degli inibitori del checkpoint e delle cellule CAR-T per i tumori più difficili da curare. Proprio in queste settimane due studi sul New England Journal of Medicine hanno riportato l’uno l’efficacia di un inibitore di PD1 in 12 pazienti con tumore metastatico del colon e l’altro lo sviluppo di un sistema di CAR-T per il tumore del pancreas. Una testimonianza di come la ricerca medica prosegua grazie a rari salti quantici e poi avanzi con più piccoli, ma essenziali, aggiustamenti incrementali.

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