L’ultimo ruggito delle fabbriche ex-jugo, così finiscono le glorie industriali di Tito
BELGRADO. «Capo, fuori, esci dalla macchina», grida un operaio con lo sguardo inferocito, il caschetto in testa malgrado il sole cocente. «Siete spazzatura», «quanto prendete voi di stipendio?», rincarano altre arrabbiatissime tute blu, dopo aver bloccato l’automobile di uno dei dirigenti della fabbrica all’ingresso di enormi stabilimenti che furono un tempo orgoglio della Jugoslavia socialista e poi locomotiva dell’export della Bosnia-Erzegovina indipendente, risorta dalle macerie della guerra. Sono estratti di un video che arriva da Mostar, in Bosnia-Erzegovina, città dove in questi giorni va in scena un nuovo atto, l’ennesimo, della caduta nella polvere di quelli che furono, un tempo, i giganti industriali della Jugoslavia.
Protagonista, questa volta, la storica Aluminij Mostar, enorme fonderia bosniaca a controllo pubblico a un passo dalla chiusura – a meno di sorprese in zona Cesarini. «L’azienda chiuderà sabato, perderemo la fabbrica» che doveva andare «ai nostri figli», solo un miracolo ci può salvare», ha ammesso Drazen Pandza, general manager di quella che fu, ai tempi di Tito, fra le più importanti industrie siderurgiche della Federazione e che, nel 2017, era il maggior esportatore dalla Bosnia.
Il fardello che ha azzoppato la Aluminij, gli alti prezzi dell’elettricità, con l’azienda che ha finora accumulato quasi 200 milioni di euro di debiti, di cui 140 circa solo di bollette non pagate. Debiti che fanno temere per le sorti di un gigante industriale “ex-Ju” sopravvissuto fino a oggi, colosso che nel 1992 dava lavoro a 10mila persone, mentre oggi gli addetti sono 900, ma dieci volte tanti sono quelli dell’indotto.
Aluminij che è solo l’ultima di una lunga serie di fabbriche un tempo gloriose affossate a seconda dei casi dalle guerre, da crisi economiche, ristrutturazioni e privatizzazione. È difficilissimo fare un censimento completo di cosa la regione ha perso dal 1991 a oggi – o è in procinto di perdere - ma gli esempi non mancano.
Bosnia che ha perduto negli ultimi decenni la Soko, orgoglio dell’industria militare jugoslava e produttrice dei caccia Galeb, ma anche il gioiello del settore dolciario Zora, la Fabrika Motora Sarajevo, visitata da Tito che lodò i 12mila «compagni» dipendenti prima del conflitto, impegnati a produrre motori anche per la Mercedes, per un valore annuo di 400 milioni di dollari.
E pure la storica Tvornica Automobila Sarajevo (Tas), che sfornava Maggioloni e Golf Volkswagen e che ancora oggi, nella capitale, è ricordata come uno dei simboli di una lontana età dell’oro. Ma c’è anche la Croazia, con i suoi storici cantieri navali in crisi, la fine della celebre Jugoplastika di Split o della Jugoturbina di Karlovac.
E la Macedonia, con l’importante Pamucni kombinat Makedonka e la Astibo (tessile); il Kosovo, con i mega-impianti di Trepca al palo dal 1999, la slovena Tomos. Lista che si allunga passando il confine ed entrando in Serbia, che negli ultimi tre decenni ha visto cessare l’attività colossi come la 29 Novembar di Subotica, grande esportatore di prodotti alimentari.
Serbia che osserva preoccupata, ormai da tanto tempo, il declino della Gosa, produttrice di vagoni per tutta la Jugoslavia, da giugno per la terza volta sul mercato. Già parte del passato sono la Geneks, «Stato nello Stato» al tempo di Tito, con il suo grattacielo brutalista nel cuore di Belgrado, l’industria di motori di Rakovica, gigante da 75mila metri quadrati, la Beko di Belgrado, storica industria tessile che oggi si sta rialzando, ma nella nuova forma di residence per ricchi, il “kombinat” Servo Mihalj, che dava da vivere a mezza Jugoslavia, la Pkb, finita in mano arabe in maniera controversa.
Ci sono anche storie di successo – seppur tra qualche polemica – come quella della Zastava, risorta come Fiat, ma con un numero di occupati dieci volte inferiore rispetto agli Anni Ottanta. E a Mostar sono in tanti a coltivare la remota speranza di un simile deus ex machina, questa volta arabo, in arrivo per salvare la Aluminij.
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