Luci sull’Adriatico: storia e storie dei fari che vegliano sul mare
La giornalista Enrica Simonetti racconta i fari in un viaggio da Santa Maria di Leuca a Trieste
Trieste. Affermavano i vecchi come mio nonno, che dalla cima del monte Maggiore, Ucka per i croati, che domina il golfo del Quarnero, nelle giornate limpide si poteva vedere Venezia. Ancora: una volta, trovandomi a Vieste, ho sentito dire che, sempre nelle giornate limpide, si potevano vedere le coste del Montenegro. Tra i diversi punti di osservazione, in mezzo, c’è naturalmente sempre il mare Adriatico. Leggende o meno, l’idea che le coste di qua e di là siano visibili sostengono però una verità: la loro innegabile vicinanza. Eppure, quante diversità, etniche, linguistiche, anche religiose, naturali, storiche.
A tirare un filo che le unisce però è, ora, Enrica Simonetti, giornalista di “La Gazzetta del Mezzogiorno”, con il libro, contenuto nel formato e nel numero di pagine, ma di grande immediatezza narrativa e suggestione fotografica “Luci sull’Adriatico – Fari tra le due sponde” (pagg. 112, euro 12,00), edito da Laterza. Il libro è il risultato di un viaggio cominciato a Santa Maria di Leuca e proseguito in barca da una costa all’altra passando prima per Corfù, quindi Othoni e poi Otranto, Brindisi, Durazzo e così via, su, su, per questo “corridoio”, come lo definisce la Simonetti, fino in Istria e Malamocco e Venezia, per concludersi a Trieste con il Faro della Vittoria, la foto a piena pagina del suo profilo sullo sfondo arrossato di un mare tinto dal tramonto.
Sono proprio le fotografie a restituire al lettore il senso della straordinarietà del viaggio in cui punto di riferimento sono i tanti, romantici fari che guidano la via sul mare, primi segnali non solo di luce per il navigante, ma anche simboli, ciascuno, della lunga storia e vicende che testimoniano.
«Lanterne dall’architettura differente - scrive Enrica Simonetti, - create da governi distanti: gli inglesi le costruirono a Corfù e nelle isole ioniche, gli austriaci in parte della costa slava, i Borboni in alcuni porti italiani. Fari che raccontano epoche diverse e che sopravvivono in paesaggi a volte uguali, a volte mutati».
Naturalmente non mancano i fari costruiti relativamente anche in anni prossimi, come quello di Termoli del 1963, che si erge su uno sperone di roccia dall’apparenza inavvicinabile. E proprio la sua “modernità” sembra togliergli, di giorno, quel fascino notturno che, invece, è presente negli altri fari più datati, come quello di Rimini, ad esempio, progettato addirittura dal Vanvitelli oppure quello di Ravenna che l’autrice ricorda ispirò, nel 1926, a Montale i versi malinconici di “Dora Markus”, la composizione in due parti, la prima delle quali comincia con: «Fu dove il ponte di legno/ mette a Porto Corsini sul mare alto/ e rari uomini, quasi immoti, affondano/ o salpano reti. Con un segno/ della mano additavi all’altra sponda/ invisibile la tua patria vera».
Di ciascun faro l’autrice dà le coordinate esatte, mentre il testo che scorre come una didascalia lungo le fotografie, racconta, pagina dopo pagina, la storia di ciascuno di esso, una storia in cui a prevalere sono soprattutto le leggende, storie di amori, come quello di Metternich per una donna istriana che ha portato alla costruzione del faro di Salvore (Savudrija) o di pettegolezzi, come quelli riguardanti proprio il Faro della Vittoria a Trieste. Pettegolezzi che riguardavano il costruttore Belam, per cui si diceva che la statua del marinaio ignoto (posta a metà della torre) somigliasse un po’ troppo al suo amico, il capitano Piero Fragiacomo, e soprattutto che sui finanziamenti del Ministero, incrementati da collette volontarie, lo stesso Belam avesse fatto la cresta. Tant’è che, stufo di tutto ciò, avesse rinunciato ad ogni compenso.
Per dire l’importanza che il faro triestino ha nella visione d’insieme di questo libro che esalta l’Adriatico, merita riprodurre le parole con le quali l’autrice conclude il suo libro, dando il senso della sua ricerca: «Tutta la memoria adriatica è racchiusa in questo simbolo di Trieste. Una memoria che non si può non definire ”adriatica”: basta salire in cima al faro triestino per restare stupiti dell’arco enorme del mare, con le coste di Grado che immaginiamo di fronte a noi, la punta di Lignano da una parte, la lanterna di Punta Sottile dall’altra, con la terra istriana che sembra a due passi (…) il mare che qui sembra un lago, ha la sua vera onda identitaria: congiunge e non separa».
Almeno questo, simbolicamente, è l’auspicio dopo gli anni di incomprensione del secolo passato.
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