L’ombra della massoneria sul passato di Rotonda Pancera
GIOVANNI TOMASIN. Alcuni luoghi si fissano nella mente ed entrano a far parte della topografia personale di ognuno in modo silente, senza far rumore. Arriva poi il momento in cui se ne prende coscienza e ci si chiede «Ma chissà perché quell’edificio ha proprio quell’aspetto?». A volte la domanda ottiene una risposta soddisfacente, ancorché incompleta. Uno di questi luoghi è senza dubbio la Rotonda Pancera, fra via San Michele e via Felice Venezian. Ogni triestino l’ha registrata nella sua memoria durante qualche passeggiata fra San Giusto e San Vito, oppure sorseggiando un bicchiere di buon vino da un tavolino in piazzetta Barbacan.
Anche nella vicenda di questo edificio si incrociano la leggenda urbana e la storia. È il destino comune a molti esempi di architettura triestina. Il libro di riferimento per chi si interessa di questi argomenti, Trieste nascosta di Armando Halupca e Leone Veronese, intitola la pagina ad essa dedicata addirittura “Il primo tempio massonico”. E in effetti nelle voci che circondano questo palazzo si registrano voci di riunioni sotterranee di uomini incappucciati, simboli esoterici e tunnel diretti in luoghi segreti. Come spesso accade, la leggenda urbana contiene in sé un piccolo nucleo di verità, come vedremo.
Come scrivono Halupca e Veronese, tutti conoscono l’edificio per la sua bellezza neoclassica, ma «pochi sanno che nelle sue vaste cantine vi ebbe sede una delle prime logge massoniche triestine». In una città in cui la Libera Muratoria ha fama d’esser da lungo tempo uno dei fattori di maggior peso politico, si desta la curiosità: «Il Tempio era ubicato nella sala sotterranea più vasta e fino a qualche anno fa erano visibili degli affreschi tipici della decorazione dei Liberi Muratori».
Ma cosa sappiamo della Rotonda? Sappiamo ad esempio che fu costruita nei primi anni del XIX secolo, fra il 1803 e il 1807, e che l’architetto fu Matteo Pertsch. Già sull’identità di chi ha commissionato il progetto ci sono dei dubbi. Da qualche parte si trova Domenico Pancera, commerciante di origine cormonese e procuratore del Comune. Altrove si fa riferimento a Venceslao Panzera, notabile triestino del periodo: fu in effetti uno dei primi a essere iniziato alla massoneria quando, con l’arrivo dei napoleonici a Trieste, le logge poterono tornare a operare dopo la chiusura asburgica. Ambedue sembrano poter essere ricondotti, ma a dire il vero senza certezze, all’antichissima famiglia dei Pancera (o Panzera, o Panciera) di Cormons, noti fin dal Trecento e proprietari del castello dei conti Panciera di Zoppola dai primi anni del Quattrocento. Una stirpe di vetusta nobiltà imperiale.
Sia come sia, sono andati perduti i progetti originari dell’edificio, sicché non possiamo sapere con certezza quale fossero le intenzioni del suo autore.
La leggenda vuole che dal sotterraneo del palazzo si dipartano cunicoli in più direzioni, alcuni dei quali collegati al sotterraneo dei Gesuiti, sotto alla Chiesa di Santa Maria Maggiore. Una voce, quest’ultima, che la Società Adriatica di speleologia ha provveduto a sfatare.
Oggigiorno è difficile andare a verificare di persona, il palazzo è in mano a privati ed è chiuso da più di un decennio. Versa inoltre in pesante stato di degrado.
Ennio Ursini, antiquario e mercante d’arte, ha lavorato per anni con la sua galleria all’interno di Rotonda Pancera. E ha avuto occasione di vedere con i suoi occhi i luoghi di cui si favoleggia: «Temo che il mio punto di vista sia un po’ dissacrante - afferma -. A parte l’incertezza sull’identità di chi ha commissionato il progetto, c’è da dire che le voci sulle riunioni massoniche al suo interno sono successive alla sua realizzazione». Risalgono infatti a metà ’800: «In quel periodo vi risiedeva tal Felice Machlig, lui sì iniziato alla massoneria, seppur non di alto grado. Essendo mal visto dal vicinato, si diffuse la voce che ospitasse in casa i riti dei suoi consociati. Per cui prima di ritenerla davvero un “tempio” massonico ci andrei cauto».
Ma all’interno della Rotonda cosa è rimasto? Racconta Ursini: «Nel sotterraneo io ci sono stato. Il soffitto è piuttosto basso, circa due metri e sessanta. Secondo me era una cisterna preesistente, che l’architetto ha trovato in sito e mantenuto all’interno delle fondazioni». È possibile infatti che fosse uno spazio di contenimento per le acque che scendevano dal colle di San Giusto e andavano a rifornire le fontane più a valle. Questo spiegherebbe anche la presenza di ulteriori passaggi, la cui esistenza è confermata, diretti al di fuori del perimetro dell’edificio. «Probabilmente erano i canali in cui scorrevano le acque», dice Ursini. L’idea non è inverosimile, visto che di strutture simili se ne trovano parecchie in Città Vecchia.
E ai piani superiori? Al primo piano operò negli anni Venti il grande pittore Carlo Sbisà, cui fece seguito una nota sartoria. Gli interni in quel piano sono decorati con tempere attribuite a Giuseppe Gatteri. Al piano terra, che nella prima metà del Novecento ospitava una drogheria, c’erano invece decorazioni diverse. Racconta Ursini: «Immagini che in effetti avevano un qualche sapore massonico. Avevano tutte soggetti orientaleggianti, egizi, che potevano avere un significato per il Rito di Memphis, uno dei principali rami della Massoneria». Quelle decorazioni, però, erano alquanto rovinate e alla fine della sua attività, in accordo con la Sovrintendenza, Ursini le ha coperte per tutelarle. Soltanto un intervento di radicale rinnovamento potrebbe gettare nuova luce sui segreti di questo gioiello architettonico.
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