L’occhio di Hitler su Trieste nelle foto di Walter Frentz, cameraman del Terzo Reich

Prima il lavoro con Leni Riefenstahl, poi operatore di fiducia del Führer. A Torviscosa una mostra diffusa con gli scatti realizzati nel 1943

Se conosciamo i colori del Terzo Reich, in buona parte lo dobbiamo a Walter Frentz. Cameraman, filmmaker e fotografo, nasce nel 1907 e appartiene a tutti gli effetti alla generazione di tedeschi che hanno messo i propri talenti a disposizione del regime nazista, approfittando di quell’opportunità per trarne un’occasione di realizzazione personale. Senza porsi, apparentemente, altre domande. Durante gli studi universitari, conosce Albert Speer che lo raccomanda a Leni Riefenstahl, in cerca di un operatore per i suoi film di propaganda. A Norimberga, a filmare i raduni del partito per la trilogia “Der Sieg des Glaubens, Triumph des Willens e Tag der Freiheit! Unsere Wehrmacht”, c’è anche lui. E nel 1936 contribuisce a creare l’innovativo – ed epico – sguardo sugli atleti in Olympia.

D’altro canto, Walter Frentz è uno sportivo, appassionato e professionista di kayak: i suoi primi film, negli anni Venti, sono dedicati a questo sport e alla natura in cui ha luogo. È qui che inizia a sviluppare tecniche per filmare il movimento, il gesto, la velocità, per mostrarne gli aspetti di forza e precisione. Nel 1938, in occasione di una missione a Vienna subito dopo l’Anschluss, viene nominato cameraman personale di Hitler ed entra a fare parte della cerchia dei più intimi. Frentz è presente agli incontri ufficiali come a quelli privati, durante i quali filma materiali che poi confluiscono nei cinegiornali della Deutsche Wochenschau. Nel 1940 immortala la Freudentanz, la “danza della gioia” che Hitler fece alla notizia della resa della Francia: gesti spontanei, mai mostrati in un cinegiornale, conquistarono i tedeschi che fino ad allora non avevano visto il “lato umano” del loro Führer.

Oltre a filmare, Frentz scatta anche fotografie. In particolare, a colori: inizia a sperimentare la pellicola Agfacolor nel 1939 e, quando inizia a fidarsi del risultato, decide di usare quasi solo quella. Hitler gli commissiona i ritratti delle personalità in visita alla Wolfschanze, la Tana del Lupo, il quartier generale in Prussia orientale. Ma sono le fotografie che scatta al Berghof, la residenza di Hitler nell’Obersalzberg, a essere più famose: scene di rilassata vita quotidiana, passeggiate nella neve, chiacchiere in terrazza, visi sorridenti sotto il sole delle Alpi, giochi con Blondie, l’amatissimo pastore tedesco. Riunioni con gli ufficiali tra gli arazzi, cene private tra quadri e camino, presentazioni dei progetti per le nuove architetture. Una tranquillità ostentata, mentre attorno c’era la guerra.

Se le immagini di Frentz colpiscono il nostro sguardo di osservatori di oggi, per chi le guardava allora erano una straordinaria novità: così diverse da quelle austere di Heinrich Hoffmann, così vivide, naturali. E tuttavia parte della stessa strategia di propaganda, per far sentire il Führer più vicino, per tranquillizzare una nazione in guerra. Nel 1939 Frentz è arruolato nella Luftwaffe e compie diverse missioni ufficiali: è con von Ribbentrop a Mosca per le trattative con Stalin, con Hitler nelle visite alle capitali occupate, realizza un reportage sull’Atlantikwall per Albert Speer, segue le operazioni sul fronte orientale. Alla fine di settembre 1943, visita l’Italia occupata e più precisamente le due “zone di operazione”: Adriatisches Küstenland e Alpenvorland, sotto diretta amministrazione tedesca. Trieste, Udine, Gorizia, Fiume, Pola, Belluno, Merano, Bolzano e poi, nel territorio della Repubblica sociale, Venezia, Verona, Vicenza.

Tra questi scatti, la gran parte dei quali inediti, compresi quelli su Trieste, vi sono le foto degli impianti della Saici-Snia a Torviscosa, attualmente oggetto della mostra organizzata dall’Associazione Pro Torviscosa. Nella mostra, intitolata “Torviscosa, 1943”, realizzata con il sostegno della Fondazione Friuli e il patrocinio dell’Istituto Friulano per la storia del Movimento di Liberazione, espone immagini probabilmente scattate per valutare la struttura e le potenzialità di produzione di cellulosa (ospitata al Villaggio Roma e Malisana, dal 15 e fino alla fine dell’anno diventa mostra diffusa nelle vetrine del centro e nei negozi, con itinerario guidato domenica 25 ottobre. info: www.protorviscosa.it). Colpisce in queste immagini come non ci siano uomini, operai: forse la fabbrica era ferma, in attesa di riprendere l’attività sotto la nuova gestione tedesca. Pochi mesi dopo, tra la primavera e l’estate del 1944, Frentz fotografa un’altra produzione, quella delle bombe V1 e V2 nella fabbrica della società Mittelwerk a Nordhausen: al lavoro, prigionieri del campo di concentramento di Mittelbau-Dora, con la divisa a righe. Anche queste immagini sono a colori e restituiscono immediatezza, vivezza, corpo reale, ma questa volta alla deportazione, la prigionia, il lavoro coatto. Non era la prima volta che Frentz entrava nel nucleo violento del nazismo: nell’agosto 1941 riceve l’incarico di accompagnare Heinrich Himmler a Minsk sul luogo delle operazioni degli Einsatzgruppen, le formazioni con il compito di massacrare i civili nel quadro dello sterminio ebraico e le operazioni antipartigiane.

Di quella missione esistono scatti di Frentz: SS sorridenti che parlano con delle contadine, bambini che giocano con un cappello SS. Eppure i suoi occhi avevano visto anche altro. Dopo la guerra dirà che lo sterminio degli ebrei era un progetto di Himmler, fatto per compiacere il Führer, ma senza il suo avvallo. Nel 1945 fotografa i danni dei bombardamenti sulle città tedesche: Berlino, Dresda, Stoccarda, Norimberga, Monaco, Colonia. Raggiunge poi Hitler, e la cerchia degli intimi, nel bunker della capitale. Qui scatta e filma le ultime, famose, immagini del Führer che conferisce medaglie ai bambini soldato impiegati nella disperata – e inutile – difesa di Berlino. Alla fine di aprile, per volontà di Hitler, Frentz lascia il bunker e si rifugia sull’Obersalzberg. Tra il 1945 e il 1946 passa alcuni mesi internato dalle forze americane, poi viene rilasciato in quanto “solo un fotografo”. Riprende così la sua prolifica attività, tra fotografia e regia. Quando, negli anni Settanta, il suo passato inizia a riemergere, si giustifica dicendo di avere solo filmato e fotografato quello che vedeva. O meglio, quella che era la sua realtà. In un documentario di diversi anni fa, è lui stesso a usare l’espressione das Auge des Dritten Reiches, l’occhio del Terzo Reich: così si sentiva. Ma l’occhio non è innocente rispetto a quello che fanno la mano e la mente. È parte dello stesso corpo. —

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