L’isola di plastica che avvelena il mare

di Pietro Spirito
C’è un’isola di plastica in mezzo all’oceano Pacifico. Anzi due. Anzi di isole di plastica ce ne sono di più: due nell’Atlantico, una nell’Oceano Pacifico e una anche nel Mare Nostrum, il Mediterraneo. Ma l’isola in verità non c’è. O meglio, c’è ma non si vede. Non sempre almeno. Sembra una sciarada, o una leggenda metropolitana, oppure un fake buono per Youtube. Invece è tutto vero.
Stiamo parlando di agglomerati galleggianti - isole appunto - composti da miliardi e miliardi di microscopici frammenti plastica, messi insieme dal gioco delle correnti che circolano intorno al globo, e provocati dagli oltre cento milioni di tonnellate di plastica prodotte ogni anno nel mondo, di cui dieci milioni finiscono direttamente in mare. Una massa spaventosa - 50 anni di rifiuti plastici - che sta letteralmente soffocando i mari, uccidendo migliaia e migliaia di specie animali ogni anno.
Ma non c’è solo la plastica ad avvelenare i mari, compreso il nostro. Ci sono anche il mercurio, le scorie nucleari, le armi chimiche e il tritolo degli esplosivi militari. Mai come negli ultimi due secoli l’uomo ha usato il mare come un’immensa pattumiera, e il risultato è che i mari - nonostante le loro sorprendenti capacità adattative, ma in parte anche a causa di queste - stanno morendo, lasciandoci tutti privi di una grande, insostituibile risorsa.
Parole già sentite, certo, allarmi che suonano di continuo con il rischio che nessuno li ascolti più. Ma quando alle parole si aggiungo riscontri sul campo, anzi sul mare, allora le cose cambiano. È quello che ha cercato di fare Nicolò Carnimeo, docente di diritto della navigazione e dei trasporti all’Università di Bari, ma soprattutto autore di libri-inchiesta come “Nei mari dei pirati” (Longanesi) sul fenomeno della pirateria moderna. Ossessionato dalla storia dell’isola di plastica, Carnimeo ha voluto andare a vedere di persona, e già che c’era ha dato un’occhiata intorno, anche attraverso il Web, per misurare lo stato generale di salute del mare. I risultati di questa sua nuova inchiesta sono ora raccolti nel volume “Come è profondo il mare” (Chiarelettere, pagg. 172, euro 13,60), con prefazione di Predrag Matvejevi„.
Proprio Matvejevi. „ trova le parole migliori per sintetizzare il libro di Carnimeo: «l’analisi lucida di uno scenario reale». Carnimeo per la sua indagine parte proprio dall’isola che non c’è (ma c’è), quella di plastica. Va a Londra a incontrare il californiano Charles Moore, un ex falegname appassionato di mare e ambientalista convinto. Un giorno dei primi anni Novanta Moore, navigando a bordo del suo catamarano “Alguita”, si è trovato letteralmente immerso in una gigantesca discarica di plastica galleggiante - bottiglie, vecchie reti, sacchetti, rifiuti di ogni genere - che ha bloccato le eliche della sua barca. Qualche anno dopo, nel 2002, è successo di nuovo, stavolta a nord-ovest delle isole Hawaii: una linea di rifiuti galleggianti larga una decina di metri e lunga decine di miglia, «tanto che non se ne vede la fine». Moore vuole capire come stanno le cose, arma il catamarano con speciali reti a sacco dette manta trawl e si mette a dragare gli oceani. Scopre così il Great Pacific Garbage Patch, come l’ha battezzato, ovvero l’isola di plastica, un’immensa “zuppa” «formata da centinaia di miliardi di microscopici frammenti di plastica, impalpabili nuvole inquinanti che fluttuano nel mare, si polverizzano e si disperdono, fermandosi in sospensione appena sotto il livello della superficie». È una massa che «si diffonde come un’ameba» dalle coste della California sino alla Cina, un’area in cui «il rapporto tra plastica e massa di zooplancton è ormai di 6 a 1, e sale a 46 a uno nella zona di convergenza», là dove si addensa per effetto delle correnti marine e del gioco delle alte e basse pressioni atmosferiche. È un’immensa isola di plastica che provoca ogni anno la morte di una quantità enorme di specie animali, dalle tartarughe marine agli uccelli che nidificano in prossimità delle coste.
Dal Pacifico Carnimeo salta poi nel Mediterraneo, dove incontra un altro bizzarro personaggio che ha a cuore il bene del mare: Bruno Dumontet, che vive a Molac, piccolo villaggio bretone a pochi chilometri dall’Atlantico. Dumontet, a bordo del suo Halifax, «un solido sloop in acciaio di 16 metri», fa nel Mediterraneo quello che Moore fa nel pacifico. Carnimeo si imbarca con lui e si accorge che l’isola di plastica c’è anche nel nostro mare: «Si calcola - spiega - che nel solo bacino nord-ovest del golfo di Genova si ritrovano in media 200mila microframmenti (di plastica, ndr) per chilometro quadrato». A Portoferraio, poi le analisi con la manta trawl svelano una concentrazione di plastica che arriva a 892.000 microframmenti per chilometro quadrato. A conti fatti, nota Carnimeo, «nel Mediterraneo in media il numero di pezzetti per chilometro quadrato è di 115.00, il che vuol dire che in tutta l’estensione marina ce ne sono 290.000.000.000 nei primi quindici centimetri d’acqua, ovvero una fascia delicata e preziosa per la riproduzione e l’alimentazione dell’ecosistema marino». È una specie di incubo globale, un “blob” che porta l’autore a confessare, a proposito della plastica: «Io la odio, ho imparato a odiarla come il capitano Moore, e la detesto così profondamente che ormai la noto ovunque: sulla riva, tra le onde, sott’acqua , mentre navigo, per strada».
Ma Carnimeo non si limita a viaggiare nelle isole di plastica. Nel libro, che richiama alla mente un classico del genere, “Il mare intorno a noi” di Rachel Carson (più volte citato nel testo), la sua indagine si spinge a curiosare fra l’anomala crescita di meduse, nelle pieghe dei più eclatanti casi di inquinamento da mercurio, sugli spiaggiamenti dei cetacei, sulla strage degli squali (l’Italia, si scopre, è al quarto posto per importazione e consumo di carne di squalo), sull’inquinamento da esplosivi militari (tirando fuori dagli archivi persino il bombardamento di Bari nel 1945 che provocò l’affondamento di tonnellate di bombe all’iprite), sui misteriosi naufragi di navi cariche di scorie nucleari. Storie, personaggi, cifre che ci fanno capire quanto avesse ragione Lucio Dalla quando cantava: «Così stanno bruciando il mare, così stanno uccidendo il mare, così stanno umiliando il mare, così stanno piegando il mare».
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