L’ira dei pirati: «Decapitiamo gli ostaggi»
TRIESTE
«O arrivano presto i soldi del riscatto, oppure uno di voi sarà decapitato». Sta precipitando la situazione a bordo della Savina Caylyn, la petroliera sequestrata dai pirati l’8 febbraio a 880 miglia dalle coste della Somalia. E il triestino Eugenio Bon, primo ufficiale di coperta è tenuto particolarmente sotto tiro assieme al terzo ufficiale, il procidano Crescenzo Guardascione e all’allievo di coperta Gianmaria Cesaro, sorrentino. Lo testimoniano le foto che i sequestratori con mitra Rpg puntati, collane di cartuccere al collo, casco da lavoro in testa e kefiah a coprire il volto, hanno inviato ai familiari dei tre, seduti per terra, legati, con la barba lunga e lo sguardo allucinato, e che sono giunte via fax anche a Trieste.
«Non ci abbandonate, non possiamo più aspettare. Il rischio è che possa succedere qualcosa di irreperabile, violenze che non meritiamo. Questi mangiano erba, possono avere reazioni particolari. Noi preghiamo il Signore, ma non ce la facciamo più. Fate presto». Lo ha supplicato il comandante della nave, Giuseppe Lubrano Lavadera, alla moglie. Il testo della telefonata, registrata, è stato pubblicato dal quotidiano Il Mattino di Napoli.
Tutto questo però succedeva tra il 9 e il 14 giugno, ma i familiari esasperati dall’attesa vana, ieri hanno deciso di renderlo noto, rompendo la consegna del silenzio imposta dalle autorità italiane. Il comandante al telefono ha riferito anche che il cibo, già razionato, è stato ulteriormente ridotto. Che i pirati, perlopiù ragazzi di 15, 16 anni, si sono spaccati in due gruppi sbaruffando su come spartirsi gli averi dei prigionieri, che un giovane somalo è rimasto ferito nella zuffa ed è stato medicato dal comandante stesso. Che la nave Horna, ancorata a due miglia da loro e a propria volta in mano ai pirati, si è incendiata. Ma soprattutto ha annunciato che la richiesta di riscatto, che inizialmente era di 11 milioni di euro, aumenta di 250 mila dollari per ogni mese che passa.
Ma nessuno sa cosa sia poi successo all’equipaggio della Savina Caylyn negli ultimi 55 giorni. Il sito web della redazione di Napoli di Repubblica fa rilevare come non lo sappia nemmeno la Farnesina. Lo si evincerebbe dalla telefonata intercorsa tra il figlio del direttore di macchina Antonio Verrecchia e un funzionario dell’Unità di crisi del Ministero degli Esteri. Nicola Verrecchia tenta di aggrapparsi ai silenzi e alle risposte vaghe per capire se suo padre e gli altri quattro italiani, tra cui appunto Bon, sono vivi. L’Unità di crisi non sa rispondere e rimanda al Ministero della Difesa che però non fornsce risposte.
Oltre ai 5 italiani, sulla Savina Caylyn vi sono 17 uomini d’equipaggio indiani, ma ben quaranta sarebbero i pirati, tutti pesantemente armati, che li tengono costantemente sotto tiro. Sono complessivamente ben 26 le navi con complessivi 522 ostaggi attualmente nelle mani dei pirati. Tra queste, due italiane: oltre alla Caylin, la motonave Rosalia D’Amato e undici sono in totale gli ostaggi italiani. «Siamo in grado di fare un intervento armato - ha affermato qualche settimana fa il ministro della Difesa Ignazio La Russa - ma ciò avverrà solo in caso di imminente pericolo di vita delle persone sequestrate». Secondo un rapporto dell’Ufficio internazionale marittimo (Imb) nei primi sei mesi del 2011 gli arrembaggi sono stati 266 contro i 196 nel corso dello stesso periodo del 2010.
I pirati somali, un vero e proprio esercito con ben millecinquecento componenti ben addestrato e armato, sarebbero agli ordini di Hassan Hayr detto “Afweyne” cioé “Bocca larga”, buon amico di Muammar Gheddafi. All’ombra dei pirati, gruppi fondamentalisti come Al Shabab avrebbero stretto un’alleanza con un’altra milizia minore per partecipare insieme al Jihad internazionale guidato da Al Qaeda. Con i soldi dei riscatti, i pirati comprano kalashnikov e bazooka e sostengono i propri clan. Ma con un astuto gioco delle parti alimentano anche la guerra civile facendo crescere il business degli aiuti internazionali.
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