L'intervista, lo scrittore triestino Pahor: "Sul sindaco nero sono stato frainteso"

"Ma come possono pensare che io sia contro quell'uomo…" rivela lo scrittore triestino al Piccolo."Il mio - ribadisce Pahor - era solo un ammonimento agli autoctoni, inclusi quelli di lingua madre italiana. Ovviamente sono stato frainteso"
Lo scrittore Boris Pahor
Lo scrittore Boris Pahor
TRIESTE
Ma come, Boris... Non ci posso credere che tu te la sia presa per l'elezione di un sindaco africano in terra d'Istria. Tu, come un Calderoli qualunque. "Impossibile", dico a me stesso quasi ad alta voce, dopo aver letto le dichiarazioni di Pahor al Primorske Novice e il putiferio che ne è seguito. Così vado a trovarlo, il combattente della memoria antifascista, il grande vecchio della letteratura slovena in Italia.


D'impeto, tanta è l'incredulità che un'anima europea come la sua possa aver ceduto all'istinto della chiusura tribale. Lo trovo abbattuto, ma guardingo, nella sua casetta alta sul mare, dove vive da solo a 97 anni. Sveglio e deciso a combattere ancora. Risoluto a farsi capire.


"Ma come possono pensare che io sia contro quell'uomo…" brontola mettendo a bollire l’acqua per il thè. Affetta un panettone nella cucina piena di libri e ritagli di giornale. È in tuta e ciabatte, con i capelli matti di chi è nato con la Bora. "Il mio era solo un ammonimento agli autoctoni, inclusi quelli di lingua madre italiana; un modo per dire "combattete per la vostra terra, non dimenticate mai che solo chi ha radici forti può reggere alla globalizzazione senza essere spazzato via…", e ovviamente sono stato frainteso".


Ma il nuovo sindaco è uno sloveno a tutti gli effetti. Io ho letto quell’elezione come una prova di grande maturità politica e apertura mentale.

"Ripeto: non ho dubbi che questo medico nato in Africa sia un ottimo sindaco. Anzi, è magnifico che abbia voglia di battersi per la sua terra adottiva".


Ma…
"Ma? Temo la scomparsa dell'identità. La Slovenia è un piccolo popolo, che è stato schiacciato prima dal fascismo, poi dal comunismo e ora dal tritacarne del pensiero unico. Siamo in Europa, o no?"


Siamo in Europa, e allora?

"E allora l'Europa non è gli Stati Uniti, non deve diventare un minestrone etnico. L'Europa sopravviverà solo se non si lascerà appiattire e resterà arcipelago. Non vede come le piccole identità reagiscono al rischio dell’annichilimento? Persino i cimbri si aggrappano alla loro lingua e combattono per essa".


Senta Pahor, ma perché a 97 anni non si allontana un po’ dalla vita? Forse è tempo di guardare le cose da lontano…

"Io a domanda rispondo. Mi hanno chiesto un'intervista su temi molto diversi e ho accettato. Non pensavo di essere così frainteso. Soprattutto non pensavo che usassero la pelle scura del sindaco per darmi del razzista. Se fosse stato fiammingo o russo sarebbe stato la stessa cosa".


Lei si sente nazionalista?

"Mi accusano spesso di esserlo. Ma io non credo possa essere considerato nazionalismo il semplice amore per la propria patria, la paura che possa svendere la propria cultura. I francesi sono europei, ma il loro inno dice "Allons enfants de la patrie"… O no?".


L’inno sloveno è un brindisi al mondo, però.

"Qui le devo dire che la poesia di Preseren, dalle cui parole è stato tratto, dice prima di tutto "brindiamo a noi stessi" e solo alla fine "brindiamo agli altri". Al tempo di Tito, in nome dell’internazionalismo comunista, la poesia è stata rovesciata e l’augurio rivolto agli altri è stato messo all’inizio. Poi con l’indipendenza è rimasto così".


E allora?

"Allora dico che non si può essere europei o cittadini del mondo se prima non si è buoni patrioti".


Pensa che il nuovo sindaco non lo sia?

"Niente di tutto questo. Talvolta un forestiero vede e capisce di più. Spesso ha l'energia per rompere vecchie incrostazioni. Ma io avrei preferito uno nato qui, uno con conoscenza approfondita della storia complicata di queste terre di frontiera".


E lei si sente europeo?

"Ha dei dubbi? La mia cultura è cristiana, la mia idea di libertà nasce dalla rivoluzione francese, ho ricevuto onorificenze in tanti Paesi. Per non parlare del fatto che mi sono salvato la pelle in campo di concentramento perché sapevo lingue straniere".


E allora?

"Ripeto. La paura che un piccolo popolo sparisca non è nazionalismo. E io sono sparito per 25 anni… per un quarto di secolo ho sentito sulla mia pelle l'annichilimento di una cultura. Lingua proibita, oltre duemila cognomi italianizzati, oltre cinquantamila sloveni modificati nei dati anagrafici e spesso nell'appartenenza".


Intanto il primo cittadino di Pirano ci sarà rimasto male.

"Beh, lo capisco e mi dispiace. Gli scriverò. Per dirgli che è solo un malinteso e in me non c'è ombra di razzismo. Gli spiegherò che non ce l'avevo con lui ma con l'assenteismo degli indigeni".


L’assenteismo che lei rimprovera è generale. Anche italiano.

"Lo vedo. Non si combatte più per un'idea, le nazioni stanno perdendo pezzi sotto la pressione del Globale e di spinte centrifughe regionalistiche. Da una parte squadre di calcio di soli stranieri, e dall'altra parte tifoserie pronte ad aggredire i loro vicini di casa… Mah. Stiamo un po' tutti perdendo la bussola".


Il mondo cambia in fretta.

"Il mondo è diventato passivo, lascia correre cose inverosimili. I poteri forti stanno schiacciando ogni cosa. E noi non reagiamo più…"


Lasci fare ai giovani la guerra al Globale.

"Colpa mia se sono rimasti soli i vecchi a combattere? Guardi questo pamphlet dal titolo "Indignez-vous", un caso editoriale francese di cui "Il Piccolo" ha appena parlato. Lo ha scritto un vecchiaccio come me, Stephane Hessel, uno che è finito nel mio stesso campo di concentramento.


A Dora...

"Sì, a Dora. Si salvò sostituendo un cartellino e prendendo il nome di un morto. Hessel non molla. E non mollo nemmeno io. Continuo a dire alla gente di queste terre di indignarsi e combattere per un'idea".


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