L’insopportabile insulto di chi non crede a nulla

La vicenda di Giulio Regeni l’ho seguita in modo piuttosto discontinuo ma sufficiente per capire abbastanza presto cos’era accaduto e come era accaduto. Poi, progressivamente, me ne sono allontanato, evitando di approfondire i termini, i dettagli, gli sviluppi e le corresponsabilità. L’ho fatto perché l’immagine di quel giovane “prima” e l'immagine del suo corpo come emergeva dai dettagli dell’autopsia, mi erano insopportabili e ciò per un motivo non certo nobile, ma squisitamente egoistico: nel travaglio di quel corpo proiettavo il corpo di mio figlio.
Forse è improprio parlarne, ma credo che si tratti di un meccanismo di identificazione a cui credo molti, moltissimi genitori non riescono a sottrarsi. Nel corpo dell’altro, nella sua giovinezza, nella sua asciuttezza, nella sua intuibile reattività e nella bellezza che ne scaturisce, leggiamo la presenza dei nostri figli... e il tormento in cui precipita quel povero involucro è l’ombra terribile che per un istante si addensa su di loro, ed è la nostra pena.
Questa è materia, credo, che non ha nulla a che fare con la politica. È materia senza tempo e seppure strettamente legata agli accadimenti storici, li anticipa e ci riporta agli interrogativi che nessuna storia e nessuna politica possono sciogliere: perché l’amore? perché la perdita? perché l’irragionevolezza del destino?
Dopo, solo dopo viene la politica e la storia di Regeni mette in luce un interrogativo che certo è appartenuto a tutte le epoche e a tutta la storia, ma che di questi tempi - tempi in cui non è consentito a nessuno, nemmeno ai più potenti di tenere qualcosa segreto - assume una drammaticità particolare. Per una serie vasta di motivi (l’Egitto è una importantissima voce del nostro export, l’Egitto svolge una funzione di contenimento dello Stato islamico in Medio Oriente in particolare in relazione alla Libia, l’Egitto stesso è un enorme serbatoio di potenziali migranti, e così via) noi non siamo in grado di rompere le relazioni con il governo di quel Paese. Lo sa il presidente del Consiglio, lo sanno i parlamentari di tutti i partiti, lo sa la grande maggioranza degli italiani.
È il principio di realtà e venir meno a esso comporta conseguenze che nessuno è veramente pronto a pagare. Al tempo stesso noi tutti - governanti e mondo politico nella sua interezza, gente comune - sappiamo che esiste un elementare senso di giustizia che nasce dalla riaffermazione del “diritto”. Questa riaffermazione porta con sé un bisogno di verità che è ineludibile. Se rinunciamo a ciò progressivamente viene meno tutto ciò che ci tiene assieme, tutto ciò che raccontiamo di noi, di ciò che abbiamo costruito e di ciò che siamo, ciò di cui ci riempiamo la bocca: i valori. In altre parole: sappiamo come vanno le cose, ma dobbiamo credere che possano andare diversamente e dobbiamo esigerlo (nel caso dal governo Egiziano). Dobbiamo chiedere “verita”.
E qui si afferma un terzo piano, che a mio avviso, si slega nuovamente dalla “storia” e va incontro a un terreno assai più antico e credo condiviso. Lo striscione rimosso da Roberto Dipiazza e dai suoi, non chiedeva “Verità su...”, chiedeva “Verità PER Giulio Regeni”. Per lui, per la memoria di quel ragazzo, perché le memorie vanno tenute vive, finchè non sono “placate”. Perché la madre e il padre di Giulio possano dirgli: abbiamo fatto tutto ciò che potevamo per te! Non servono riferimenti letterari, e non serve aver fatto il liceo. Credo che ci siamo capiti.
Gli uomini che hanno fatto togliere quello striscione, in un colpo solo sono venuti meno a tutto. Al riconoscimento della tragedia, al dovere di esigere verità, al dovere della memoria. Oh, le amano le “memorie” eccome, ma quelle congelate nel marmo che offrono certezze e non interrogativi, non quelle vive che - fra le tante cose - ci ricordano che tutti andremo a “finire”. Non centra la politica, centra piuttosto una povertà di cuore, una esibita rozzezza e una profondissima miscredenza. È gente che non crede a nulla.
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