Libia, forniture di armi e delitto Regeni: l’imbarazzo di Conte con l’egiziano Al-Sisi
ROMA. Quando arriverà giustizia per Giulio Regeni? Ieri il premier italiano Giuseppe Conte ha avuto una lunga telefonata con il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi: si è parlato di commesse militari, dell’importanza di fare affari prima e meglio dei francesi o degli inglesi, si è parlato molto della crisi libica, ma su Giulio Regeni ancora niente, nessuna risposta.
È la nona volta che i due si incontrano, e ogni volta il colloquio si conclude ricordando quanto è importante, per l’Italia, fare luce su quell’omicidio. L’impressione, però, è che il messaggio sia diventato una frase d’occasione, magari sentita, ma comunque non penetrante abbastanza da far in modo di non essere in agenda per l’incontro successivo.
Sarebbe ipocrita tuttavia caricare sulle spalle del solo premier Conte la vergogna di mercanteggiare con l’Egitto all’ombra del corpo di Giulio Regeni. Innanzitutto perché Conte non è andato a titolo personale a parlare della vendita di 6 fregate, di una ventina di pattugliatori navali, di 24 cacciabombardieri Eurofighter e di 24 aerei addestratori M346, con un contratto per forniture militari del valore complessivo di 9 miliardi di dollari, il maggiore mai rilasciato dall’Italia dal dopoguerra. Ci è andato a nome di un governo che nei giorni scorsi è stato sul tema ampiamente consultato, a tutti i livelli.
Un governo che aveva avviato l’operazione già nel 2019, ai tempi della maggioranza giallo-verde, prima del Conte 2, ma molto dopo l’assassinio di Giulio Regeni, avvenuto nel 2016. Nessuno sollevò obiezioni allora – e fu un errore – ed è dunque bizzarro che le polemiche si sollevino oggi. Poi perché sono anni che l’interscambio Italia-Egitto non si ferma: trentacinque miliardi nell’ultimo triennio, una forte presenza di Eni, che addirittura riuscì a far entrare in produzione a tempo di record il giacimento egiziano di Baltim South West, scoperto nel giugno 2016, con l’opinione pubblica ancora sotto choc per quell’assassinio, avvenuto tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio dello stesso anno.
Ora, va bene difendere gli interessi nazionali, l’economia, i posti di lavoro, e va bene persino usare l’argomento “se non comprano le nostre fregate compreranno quelle dei francesi”, ma quando arriverà il momento per chiedere giustizia sul caso Regeni e ottenerla sul serio, in modo che la famiglia e l’opinione pubblica possano avere la percezione di vivere un Paese che, senza ricorrere alle ipocrisie, sappia garantire sicurezza e rispetto dei diritti?
Non è secondario il fatto che gli egiziani ricerchino nell’Italia un partner per il processo di stabilizzazione in Libia. Nel corso della telefonata, il premier Conte ha preso atto del tentativo del Cairo di mandare avanti una mediazione col generale di Bengasi Khalifa Haftar in vista della realizzazione degli obiettivi di Berlino. A nessuno in Europa può piacere una Libia spartita tra la Turchia e la Russia, ed è interesse dell’Italia che l’Onu riprenda il controllo della situazione. A questo scopo si sono cercati di tenere sempre aperti i canali di comunicazione con le parti in conflitto, pur restando sulla carta a fianco del governo riconosciuto di Tripoli.
Oggi il banco di prova è atteso a Ginevra, dove ci si aspetta che i contendenti si siedano fisicamente intorno allo stesso tavolo e siano in grado di definire gli scenari per il futuro di una Libia stabile. Di nuovo, possibile non esista nessuna forma di “leverage” che la nostra diplomazia possa sollevare, per rendere la nostra interlocuzione con l’Egitto più motivata sulla soluzione del caso Regeni?
Il fatto che quello tra Italia ed Egitto sia un binario di interessi trafficatissimo – che ci vede come interlocutori per le commesse militari e per il processo di stabilizzazione in Libia – rischia con il tempo di far passare il caso Regeni per un binario morto, l’unico in cui gli sforzi sono a senso unico, da parte della procura e delle autorità italiane. E se certo garantisce che neanche un posto di lavoro vada perduto, e neanche un euro vada indirizzato ad altri anziché a noi, non toglie la sconfitta valoriale, né la rende meno grave.
A quando dunque le prime risposte? L’arresto a febbraio scorso dello studente e attivista egiziano George Zaki, che frequentava un master presso l’Università di Bologna, è il segno che perdere tempo, sul fronte dei diritti, non coincide con l’attesa e la speranza, ma con un rapido scivolare all’indietro, nella terra desolata delle “circostanze non del tutto chiarite”.
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