L’Europa alza nuove barriere. Visti “preventivi” in Schengen
ma anche quelli di una sessantina di altri Paesi extra-Ue che oggi possono viaggiare senza visti
BELGRADO. L’Unione europea continua a ripetere, nelle occasioni più svariate, di voler accogliere i Paesi balcanici ancora extra-Ue nelle sue fila. Ma allo stesso tempo rischia di costringere, forse inconsciamente, i Balcani in un isolamento, non solo mentale. Con misure che potrebbe scatenare forti polemiche. Misure che sono quelle contenute nel futuro «Sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi (Etias)», una procedura proposta l’anno scorso dalla Commissione europea in chiave anti-terrorismo, una maniera «per sapere chi arriva, prima che il viaggio abbia luogo», aveva specificato al tempo il presidente Jean-Claude Juncker. Procedura la cui attuazione si fa sempre più vicina. Lo ha confermato l’agenzia serba Beta, che ha informato che il 19 ottobre la «Commissione del Parlamento europeo per le Libertà civili», Giustizia e Affari interni, il Libe, ha «accettato la proposta della Commissione» sul sistema Etias.
Proposta che verrà girata ora al Consiglio dei ministri Ue, «per la sua adozione», attesa ora entro la fine del 2018, con il sistema che potrebbe entrare a regime già nel 2020, ha specificato una portavoce del Libe, Estefania Narrillos, alla Beta. Sistema che, se introdotto, obbligherà i cittadini con passaporto serbo, bosniaco, macedone, montenegrino e albanese - ma anche quelli di una sessantina di altri Paesi extra-Ue che oggi possono viaggiare in Schengen senza visti, Usa inclusi - a compilare prima di mettersi in viaggio una sorta di questionario online, fornendo dati personali e informazioni sul proprio soggiorno nell’area Schengen. La risposta - che sia luce verde o semaforo rosso - arriverà nel giro di 72 ore, in modo rapido. Ed è prevista, nella bozza attuale, la possibilità di fare ricorso contro un eventuale diniego, ha chiarito la Tv Al Jazeera.
Per l’intero processo, ha scritto Beta, si dovrà pure pagare una tariffa una tantum, di dieci euro, imposta che varrà tre anni o fino alla scadenza del proprio passaporto. Saranno esenti dal pagamento i minori, gli over-60, studenti e ricercatori e anche familiari di cittadini Ue. Etias che è un passo necessario per la sicurezza dell’Ue, aveva garantito la Commissione nel novembre scorso.
Ed è un sistema che rispecchia simili procedure in funzione ad esempio negli Usa, col sistema Esta (14 dollari per viaggiatore), in Canada e Australia. E «l’apertura» dell’Ue «non deve andare a discapito della sua sicurezza», aveva rimarcato al tempo il Commissario agli Affari interni, Avramoupolos, specificando che Bruxelles vuole sapere, prima di far entrare qualcuno nell’area Schengen, se rappresenta «un potenziale rischio alla sicurezza» o in termini di «immigrazione irregolare».
Per non parlare poi dei possibili benefici per le casse Ue, con 500 milioni di euro all’anno in più di introiti grazie a Etias, aveva calcolato l’anno scorso il portale Euractiv. Benefici che, tuttavia, sono assai poco apprezzati nei Balcani.
Certo, non si torna ai visti e alle interminabili file davanti alle ambasciate europee, alle spesso umilianti interviste negli uffici consolari. Ma l’autorizzazione preventiva, che a tanti appare come un ‘semi-visto’, sembra proprio non piacere a molti cittadini dei Paesi balcanici, come non piace a molti governi. Siamo contrari, aveva detto già l’anno scorso Belgrado. Cittadini che hanno inondato ieri di commenti negativi i media online che hanno parlato di Etias. «Di nuovo i visti», «quale la differenza tra il questionario e i visti rilasciati con processo breve?», «si introducano misure di reciprocità per i cittadini Ue», «se volessi andare a Parigi domani non potrei farlo, ma dovrei aspettare 72 ore per il permesso», «forse ci chiederanno il certificato del dentista e anche quello del ginecologo», alcune delle critiche al sistema, in Serbia. «Non sono visti, ma la stessa cosa in un altro formato», «nel 2020 saremo già nell’Ue», fra i commenti, ironici, più apprezzati sul portale Klix, in Bosnia. E la questione, almeno nei Balcani, non è destinata a spegnersi tanto presto.
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