L'epistolario: Marin e Magris, i grandi amici
In mezzo a loro c’era un abisso di tempo. Quarantotto anni. Quelli che separano un nonno da un nipote. Ma un giorno Claudio Magris bussò alla porta dell’ufficio dove lavorava Biagio Marin. Aveva 16 anni, il futuro germanista e scrittore. Sul poeta sapeva già parecchio, dai racconti di suo padre Duilio. E poi, a Trieste, le due famiglie abitavano vicino. I Marin in vicolo del Castagneto, i Magris in via del Ronco, nella zona del Giardino pubblico.
Marin portava una ferita indelebile nell’anima. Dodici anni prima, suo figlio Falco, l’unico figlio maschio, era morto in guerra in Slovenia. Aveva 24 anni. Come si fa a rassegnarsi se la Morte porta via chi ha appena cominciato a vivere? Quando si presentò quel ragazzo, Claudio, era il 1955. Suo padre lo aveva mandato dal poeta perché gli facesse da guida nel labirinto intricato della vita. E lui, Biasèto, riconobbe subito nel giovane Magris un «figliolo d’anima». Una vitalissima proiezione del se stesso ragazzo. Di quel «cavo de nembo», come lo chiamava la nonna: un fronte di tempesta, un vulcano di intelligenza ed energia. Ricordo fatto carne dell’amico Scipio Slataper, il geniale autore del “Mio Carso” morto sul Monte Calvario nel 1915. E del figlio Falco, a cui Magris dedicherà il suo primo articolo, tre anni più tardi.
Era un ragazzo, Claudio Magris. Frequentava la seconda liceo, prometteva bene. E prese subito un impegno solenne con quel poeta che ancora lavorava come bibliotecario delle Assicurazioni Generali. E che quando qualcuno veniva a chiedere un libro da consultare, lo mandava a quel paese senza pensarci due volte. Perché non si può interrompere chi è immerso nella lettura di Platone.
Magris scrisse a Marin: «Un giorno farò anch’io il Giovanni Battista della Sua poesia». E il poeta non esitò a riconoscere nel giovane amico molte affinità con Falco. Tanto che gli rispose: «Non pensar male di questo accostamento. Non ti nega, non ti confonde. Tu sei Claudio e lui era Falco. Ma è certo che non è senza profonda ragione che Claudio è venuto nella mia vita tre lustri dopo la dipartita di Falco. Quanto grato io ti sia, non te lo posso dire».
Sono diversissimi, Marin e Magris. L’uno si professa uomo dell’Ottocento, vive nel presente ma anela all’eternità; l’altro è figlio di un Novecento che, dopo l’orrore di due guerre mondiali e tragedia indicibili, brucia il futuro prima ancora di averlo vissuto. Eppure, li unisce un’amicizia fortissima, mesmerica, necessaria. Un cordone ombelicale fatto di parole, ragionamenti, illuminazioni. Un contatto, mantenuto soprattutto per via epistolare, che non si interrompe mai, che va avanti per quasi trent’anni. E che adesso ritorna alla luce in un libro prezioso, di scena al Salone di Torino venerdì 9 maggio. Si intitola “Ti devo tanto di ciò che sono”. L’ha curato per Garzanti (pagg. 407, euro 18,60) il giornalista Renzo Sanson, firma illustre del “Piccolo”, che introduce il volume, in libreria da mercoledì, con l’illuminante saggio “Canto e controcanto”, arricchito da numerosi passaggi dei diari inediti del poeta. In chiusura, dopo le lettere che coprono il periodo 1958-1985, una conversazione con Magris mette a fuoco le tappe di questa straordinaria vicenda umana e letteraria.
Sono lettere d’amore e tempesta, ammirazione e rimprovero, gioia e delusione, quelle che contrappuntano l’amicizia tra il vecchio e il giovane. Marin, che morirà nel 1985 a 94 anni, mette subito le carte in tavola: «Con uomini come me bisogna perdere tanto tempo e magari anche l’anima». Lui vive per la poesia, vorrebbe trovare in Magris il giovane, brillante critico capace di portare alla ribalta nazionale la sua opera. «Questo è il mio ultimo desiderio: che i miei versi siano per qualche anima, parola, magari solo quella che dicono le bolle di sapone». E anche se intrattiene rapporti epistolari con i principali intellettuali dell’epoca (da Giuseppe Prezzolini a Pier Paolo Pasolini, da David Maria Turoldo a Ervino Pocar, da Vittorio Sereni a Carlo Bo, per citarne solo alcuni) non si sente mai sazio di parole. Riempie pagine di diario, spedisce lettere a raffica. Annota, sviscera, riflette. Oggi, sarebbe un perfetto blogger.
Magris ha bisogno di un padre come lui: «Ti devo tanto di ciò che sono, e tu vivi in me». Ma deve bruciare le tappe in fretta. La sua tesi di laurea diventa un primo, acclamato saggio: “Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna”. Bissato presto da un altro capolavoro saggistico: ”Lontano da dove”. L’università gli dà strada, l’editoria lo chiama, comincia a scrivere per il “Corriere della Sera”. Il tempo incalza, ma non dimentica Marin. Arriva da lui con passo da ufficiale imperialregio, se ne va come una folata di vento. Rischia di indispettire il vecchio che non capisce la sua mole di impegni. La voglia di vivere, amare, avere una famiglia, studiare, scrivere a rotta di collo. Così, incassa l’accusa di essere egocentrico, di farsi corteggiare. Marin non gli risparmia i fendenti: «Quando urto, urto con violenza». Come se lui fosse immune dai difetti.
Ma ombre, incomprensioni transitorie, offuscano appena un’amicizia capace di superare l’abisso del tempo. Perché, come scrive Magris a Marin: «È la tua via che cerco di battere, con passi miei».
alemezlo
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