Legionella contratta all’ospedale di Monfalcone: Asugi condannata a risarcire i familiari
Confermata in Appello la sentenza in favore della moglie e della figlia di un ausiliario che morì a un anno dall’infezione dopo una serie di ricoveri
Asugi non potrà recuperare quanto era stato versato a titolo di risarcimento dei danni ai congiunti, in seguito al decesso del capofamiglia legato a un’infezione da legionella che aveva contratto sul luogo di lavoro, quale ausiliario specializzato e con mansioni di portantino al Pronto soccorso dell’ospedale San Polo.
Lo ha deciso la Corte di Appello di Trieste, respingendo il ricorso presentato dall’Azienda sanitaria che aveva impugnato la sentenza del Tribunale di Gorizia, del 30 luglio 2021, con la quale era stato stabilito un importo di 134.600 euro a ciascuna delle eredi, la moglie e la figlia.
I giudici del Collegio di lavoro triestino, presidente Lucio Benvegnù, consiglieri Marina Vitulli e Giuliano Berardi, hanno pertanto disposto pure la liquidazione delle spese di lite da parte di Asugi per 14.734 euro, oltre alle spese generali e di legge. La Corte ha anche accolto l’appello incidentale proposto dalla società assicuratrice Reliance National Insurance Company (Europe) Ldt, che era stata condannata a pagare il risarcimento in solido con Asugi, con compensazione in questo caso delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.
Sta in questi termini la conclusione del procedimento di secondo grado relativo a una lunga e articolata vicenda. L’uomo aveva iniziato il suo rapporto di lavoro nel 1993, all’epoca dipendente dell’Ass 2 Isontina, poi diventata Ass 2 Bassa Friulana Isontina, fino al marzo del 2007.
Nell’aprile di quell’anno, però, era stato trovato a terra nella sua abitazione, in stato confusionale e in preda a una importante dispnea. Fu subito ricoverato in Terapia intensiva, al San Polo, e poi trasferito in Rianimazione a Gorizia, a fronte di una diagnosi di polmonite da legionella, rimanendovi fino al 6 maggio. L’infezione aveva provocato una tetraparesi. Nuovo trasferimento a Monfalcone, in Medicina riabilitativa, e nel settembre 2007 in Rsa. Infine il rientro a casa a fine dicembre, salvo l’ulteriore ricovero in Medicina e ancora in Rsa, dove il 16 marzo 2008 era intervenuto il decesso.
Nell’ambito delle indagini, i Carabinieri del Nas avevano riscontrato la presenza di batteri nei campioni di acqua prelevati nelle docce femminili, utilizzata pure dai dipendenti uomini nel periodo in cui i loro impianti erano inagibili. La legionella era stata riscontrata anche in un locale della portineria del Pronto soccorso. Contestualmente, erano stati eseguiti campionamenti nell’abitazione del lavoratore, che avevano dato esito negativo. Da qui la responsabilità ricondotta all’Azienda sanitaria. Ai fini del danno biologico era stato quantificato un periodo di inabilità di 286 giorni.
Il processo di primo grado, davanti al giudice del lavoro, era dunque culminato nella sentenza di condanna al pagamento del risarcimento alle parti offese, moglie e figlia del deceduto. In sede di Appello Asugi ha sostanzialmente riproposto l’eccezione di prescrizione del credito risarcitorio, essendo decorso il termine previsto di cinque anni, aspetto per il quale la Corte triestina ha invece considerato le regolari interruzioni attraverso una serie di atti prodotti dalle ricorrenti.
In ultima battuta, la Corte osserva che, «a decorrere dal decesso dell’uomo, il termine di prescrizione è stato più volte interrotto, fino all’instaurazione di questo giudizio, prima della scadenza dei cinque anni». Né è stato accolto il ritenuto onere da parte delle ricorrenti di dimostrare la nocività dell’ambiente di lavoro, a stabilire quindi il relativo nesso di causalità.
Per la Corte, «sulla nocività dell’ambiente di lavoro (da intendere come fattore di rischio) non sussistono dubbi». Come, a discendere, sempre per i giudici, sulle fonti di contagio, le docce femminili e lo stesso locale della portineria, dove «non è escluso che l’uomo fosse entrato». Per contro i controlli risultati negativi all’abitazione, motivo per cui «non sono note altre possibili fonti di contagio».
La Corte non ha convenuto neppure sull’effetto pregiudizievole alla salute della vittima di condizioni patologiche preesistenti, sostenuto dalla ricorrente, che «non erano idonee di per sé a causarne la morte, almeno a breve termine». Quanto ai controlli pure effettuati periodicamente da Asugi seguendo le prescrizioni delle linee guida nazionali, i giudici hanno argomentato che «l’Azienda non ha dimostrato di aver effettuato una specifica valutazione del rischio da agenti biologici cui erano esposti i suoi dipendenti» .
La Corte ha infine respinto la contestazione dell’Azienda sanitaria circa la quantificazione del danno, confermando la sentenza di primo grado. Accolto invece l’appello proposto dall’assicurazione, con la riforma sul punto della sentenza di primo grado, in sostanza poiché nessuna richiesta era stata fatta nei suoi confronti dagli eredi del lavoratore e perché il risarcimento stabilito è inferiore alla franchigia. A rappresentare le congiunte è stato l’avvocato Paolo Coppo, per Asugi l’avvocato Riccardo Cattarini, l’assicurazione è stata infine sostenuta dall’avvocato Massimo Laurenti.
L’avvocato Coppo ha affermato: «Dopo 17 anni dall’episodio, risalente al 2007 con il successivo decesso nel 2008, finalmente arriviamo a una sentenza definitiva nel merito, che conferma quella di primo grado e acclara la responsabilità di Asugi come parte datoriale per questa vicenda che ha riguardato un proprio dipendente. È stato un lungo iter processuale, iniziato nel 2018, e oggi abbiamo due sentenze sostanzialmente conformi, seppure con la modifica legata alla presenza della compagnia assicuratrice che s’è costituita in secondo grado con la sua esclusione rispetto alla solidarietà di questo sinistro».—
Riproduzione riservata © Il Piccolo