L’economista Sapelli: «Non ho mai creduto allo sviluppo calato dall’alto. Il Pnrr è una risposta errata»
TRIESTE «Non credo allo sviluppo dall’alto». Giulio Sapelli, storico, economista, docente (pure a Trieste, agli esordi della carriera universitaria), crede molto più nelle persone, dai sindaci ai dirigenti della Pubblica amministrazione, che non nell’impostazione del Pnrr. In un contesto in cui l’Italia sta ritornando ai numeri pre Covid, ma «rimangono inalterate le strozzature che impediscono la crescita», sottolinea Sapelli nell’introdurre il tema delle riforme, uno degli argomenti di dibattito a Link Festival sulla ripresa sostenibile (2-5 settembre a Trieste), di cui l’economista – autore del recente “Nella storia mondiale. Stati mercati guerre”, Guerini editore, e già vincitore nel 2020 del premio Fieri (istituito da Fincantieri nella scorsa edizione) – sarà ospite, intervistato da Maria Latella.
Nella nota sulla congiuntura di agosto dell’Ufficio parlamentare di bilancio si parla si una crescita del Pil pari al 6% nel 2021. E c’è chi prefigura un boom economico post Covid. Eccesso di ottimismo?
«È vero che stiamo raggiungendo la situazione precedente alla pandemia, ma vanno usate parole appropriate. Perché quella era una situazione caratterizzata da stagnazione e decrescita cominciate, di fatto, dal 2007. Se vogliono parlare di boom si accomodino, ma si tratta di un gioco illusionistico».
Quali i tempi del ritorno almeno ai numeri del 2019?
«Rapidi. L’industria manifatturiera, soprattutto quella piccola e media, si è rivelata di inaspettata resilienza. Il termine è barbarico, ma in questo caso utile. Si sono ripresi anche servizi alla persona, turismo e commercio di prossimità. Dopo di che rimangono inalterate le strozzature che impediscono la crescita».
Ora c’è il Pnrr. Perché, più volte, ha criticato l’impostazione del piano?
«Io non credo allo sviluppo dall’alto, né mai ho creduto all’Unione Sovietica. Se ho criticato in gioventù la seconda cassa del Mezzogiorno, non può convincermi un progetto burocratico, centralizzato, difficilissimo da implementare. Tutto questo, in un Paese senza segretari comunali e incapace di chiudere le Province, pensando che possa bastare assumere qualche centinaio di persone a tempo determinato che devono imparare ogni passaggio della macchina amministrativa».
Teme che queste risorse andranno disperse?
«Credo che, soprattutto nei piccoli comuni, ci saranno sindaci e amministratori che hanno passione e faranno bene il loro lavoro. Credo anche che una parte della pubblica amministrazione, quella a tempo indeterminato, dimostrerà di saper scrivere i provvedimenti. Ma l’errore è stato sventagliare troppi punti di aggancio, quando ne sarebbero bastati due: la digitalizzazione e la transizione energetica».
Come sta gestendo questa fase il governo Draghi?
«A me non pare che esista un governo Draghi. Ci troviamo davanti un sistema di partiti personali in crisi ai quali l’intervento del presidente Mattarella e degli Stati Uniti, preoccupatissimi dal ruolo tedesco in un’Europa post pandemica, hanno imposto la presenza di Draghi. Sia chiaro, è stata una fortuna per noi, ma il governo Draghi è sulla carta, non è ancora entrato in azione, è solo una buona invenzione diplomatica».
Insisto, il Pnrr aiuterà lo sviluppo?
«Qualcosa si farà. Perché, appunto, la maggioranza degli amministratori locali e i bravi dirigenti della Pa sono persone oneste e di buona volontà. Ma i problemi dell’Italia vanno risolti con una rivoluzione morale e selezionando un sistema di partiti».
Obiettivo realistico?
«Ci sono tutte le condizioni per romperci la testa, ma non fasciamocela prima che serva. Ci sono territori, per esempio, in cui la vita politica è molto viva».
Promuove Massimiliano Fedriga alla guida della Conferenza Stato-Regioni?
«I presidenti di Regione con cui mi sono confrontato ne parlano molto bene. Mi sembra meno uomo solo al comando del predecessore, Bonaccini. Fedriga è misurato e mi sembra capace di non buttarla sempre in politica».
Lei ha sottolineato la stima della disoccupazione reale al 25-30% e la povertà dei salari. Come se ne esce?
«Innanzitutto gli investimenti, privati e pubblici: una buona ricetta è quella di Confartigianato, mentre gli industriali abbaiano spesso alla luna. Il nodo è che mentre gli Stati Uniti hanno una vera banca centrale, noi abbiamo la Bce. Creare occupazione con una gamba sola è molto difficile».
Le altre vie?
«Riformare l’istruzione professionale. Parlo degli istituti tecnici, come quello in cui mi sono diplomato io, da perito fotografo. E poi aumentare i salari, abbassando il costo del lavoro. Questa riforma è ineludibile».
Il reddito di cittadinanza che soluzione è?
«Offensiva nei confronti del lavoro. In un’Italia che ha il numero più alto di inattivi in Europa si è fatta una misura che ha pure favorito il lavoro nero».
Come giudica lo smart working da pandemia?
«Un arretramento nel processo di civilizzazione. Soprattutto per i più deboli, come le donne».
La conciliazione famiglia-lavoro?
«Le vecchie battaglie femministe, quando si volevano le riforme sociali, non si fanno più. Servono più asili nido, non smart working».
L’impatto della crisi afghana sull’economia?
«Minimo. Gli Stati Uniti si ritirano in modo maldestro da un luogo di non rilevanti risorse energetiche».
Quale invece il ruolo del Friuli Venezia Giulia in questo contesto storico?
«Quello di sempre. I cinesi, imperialismo da debito, sono un formidabile pericolo. Per questo è positiva la presenza tedesca nel porto di Trieste. Un porto che deve essere di transito, utile allo sviluppo dell’hinterland, che è la Mitteleuropa».
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