L’eccentrico commerciante e i dodici Druidi di Fernetti

di GIOVANNI TOMASIN
Alle spalle dell’autoporto di Fernetti, in fondo a un sentiero punteggiato dalla spazzatura, tre grandi archi in pietra carsica si ergono in mezzo agli alberi. Di primo acchito sembrano una struttura arcana, naufragata fino a oggi da chissà quale epoca antica. Avvicinandosi, però, si scopre che a sorreggere la loro forma aggraziata c’è un’anima in cemento armato. Quei tre archi sono la porta d’ingresso alla “dolina dei druidi”, una storia tutta triestina in cui si incontrano esoterismo novecentesco, scampagnate in famiglia e le fantasie di un eclettico commerciante del centro. Chi ha qualche capello bianco sulle tempie se la ricorda bene. Negli anni Settanta e Ottanta i ragazzini andavano ai “druidi” per pomiciare e per improvvisare qualche seduta spiritica. Le famiglie scendevano la dolina a Pasquetta o Ferragosto per ingollare cevapcici sul grande tavolo centrale. Qualcuno, la notte, usava il posto per riti bizzarri. Oggi della struttura di allora resta poco.
Passati gli archi, il visitatore si inoltra nella depressione destreggiandosi fra rovi e cespugli. Qua e là spuntano dal verde forme bizzarre, obelischi di pietra, rovine simili a quelle accarezzate dai romantici, coperte di muschio. Il passare degli anni ha fatto appassire molta della magia che pervadeva il luogo, portando alla luce il cemento e l’anima metallica che sorregge quasi tutte le strutture. Un tempo non era così: su internet alcuni appassionati hanno pubblicato foto d’epoca in cui si vede il sentiero a spirale che portava al centro della dolina.
Sul fondo stava un grande tavolo con undici sedili in pietra e un trono rialzato. Dodici in tutto, come gli apostoli, i segni zodiacali o i cavalieri della tavola rotonda secondo alcune tradizioni. Ai margini della dolina c’erano altri edifici con nicchie e una piccola vasca. Invasi dalle piante, li si trova ancora ai giorni nostri, mentre del tavolo con i sedili e il trono non restano che dei mozziconi di pietra. Realizzare una struttura simile è un lavoro imponente. Chi e quando l’ha fatto? Le supposizioni sono tante, includono set cinematografici e nazisti. Nel suo libro “Leggende del Carso triestino” Dante Cannarella scrive di un commerciante triestino che avrebbe comprato l’area negli anni Cinquanta edificandola in modo bizzarro: «Alle mie domande sulle ragioni di una simile trasformazione della dolina, mi disse che lui riteneva quel luogo abitato da un popolo antico, quello dei Druidi, guidato da un re saggio».
L’intera topografia del suo luogo di culto personale serviva a riprodurre nella pietra quella visione mitica. Il nome di quel commerciante, morto da decenni, è Luigi Rossoni. Lo confermano oggi Sergio Rossoni, parente di Luigi, e suo figlio Andrea. Sono i proprietari dell’omonima galleria in Corso Italia. Ricorda Sergio: «Era un cugino di mio padre, veniva spesso a casa nostra. Aveva un negozio in via Santa Caterina, nel corso del tempo ha venduto libri, strumenti musicali, elettrodomestici». Per quanto riguarda la dolina, Sergio premette di avere ricordi vaghi: «So che aveva una proprietà a Fernetti e che aveva affidato a un muratore del posto degli strani lavori che aveva deciso di fare». Ma Rossoni aveva interessi di tipo esoterico? «Sinceramente non saprei dirlo - spiega Sergio -. Però è sempre stato una persona piuttosto originale, eclettica. Durante la seconda guerra mondiale faceva parte di un gruppo di professori e persone di cultura che si interessavano di politica». Se quel gruppo di intellettuali sia stato un ponte verso affiliazioni d’altro tipo, è cosa che non sapremo probabilmente mai. Francesco Boer, autore di “Il volto arcano di Trieste” ed esperto di simboli, scende sul fondo della dolina e riflette sulla difficoltà, in epoca moderna, di praticare una spiritualità naturale, affine al paganesimo antico: «Ciò che è storto non si può raddrizzare, il ritorno all’origine è un’illusione. La discesa nella dolina dei druidi sembra portarci verso un tempo incantato in cui era ancora possibile vivere in armonia con la Natura». Eppure un esame più attento, prosegue, rivela che questa «pur nobile speranza» è di fatto un abbaglio: «La vegetazione sta pian piano riprendendo il possesso della dolina, e gli archi di pietra che ancora resistono mostrano ora il loro artificioso scheletro di cemento ed acciaio - dice lo scrittore -. Come un buon vino, gli antichi ruderi acquistano in nobiltà col passare dei secoli; qui invece lo scorrere del tempo è sinistro ed impietoso».
Dopo la Grande guerra, prosegue, sembra essersi persa la capacità di erigere architetture sacre: «La Prima guerra mondiale sembra segnare uno spartiacque storico, una dolorosa ferita che rompe la continuità della tradizione - afferma Boer -. Fino ad allora l’umanità era ancora capace di costruire un tempio degno di questo nome, un edificio che fosse l’immagine sacra del Cosmo nella sua interezza. Ora qualcosa si è spezzato nell’anima umana, e quello squilibrio si riflette anche nelle nostre creazioni, e in special modo nell’arte sacra, dove più ci sarebbe bisogno di equilibrio». Non serve andare molto lontano per trovare brutture in cemento armato che aspirano alla dignità di luogo sacro. In un certo qual senso anche i “druidi” rientrano in quella temperie culturale, anche se in veste neopagana piuttosto che cristiana: «La dolina di Fernetti non è così priva di grazia, eppure la medesima distanza spirituale la separa dagli antichi templi - conclude Boer -. Le intenzioni del costruttore erano sicuramente le migliori, e senza dubbio il miraggio durò per anni, prima di scoppiare come una bolla di sapone. Ora però ha il languore di un circo prima e dopo lo spettacolo». Una fiaba sgretolata, nascosta nel verde.
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