Le vite di Marco, Gina, Zaccaria e gli altri in quel viaggio infame nell’orrore della Shoah

Martedì 29 gennaio la posa di tredici pietre d’inciampo all’Arco di Riccardo per non dimenticare chi partì per i campi e non fece mai ritorno 

TRIESTE. Verso mezzogiorno, quando i soldati dell’Armata rossa varcano il cancello di Auschwitz, ottocento chilometri più a sud Trieste è ancora sotto il controllo nazista. E la città è svuotata di molti dei suoi abitanti – ebrei e non solo. È il 27 gennaio 1945. A migliaia sono fuggiti, da Trieste. Altri sono morti. Altri ancora sono sparsi nei campi di sterminio, in giro per il Reich tedesco che si sta sgretolando. Zaccaria Chaim, ad esempio, in questo momento è a Bergen-Belsen. Qualche anno prima, come tanti, ha intrapreso il suo viaggio attraverso uno dei capitoli più infami della storia proprio dal capoluogo giuliano.

Ed è qui che, dopo la guerra, tornerà «per ricostruire la vita – racconta oggi suo figlio Armando, mentre esibisce alcune fotografie di sé bambino, negli anni Cinquanta –. Ogni vita che nasce è un affronto a chi ci voleva distruggere». Armando vive tuttora a Trieste e porta spesso nelle scuole la testimonianza messa per iscritto dai suoi genitori. «Shoah, in ebraico, significa catastrofe – prosegue –. Le persone furono cercate casa per casa, cantina per cantina, per essere trascinate nella sofferenza e nella morte. Persone che erano radicate nel Paese in cui, fino a quel momento, avevano vissuto. Dai venditori di stracci ai medici, gli ebrei scoprirono di essere tali quando non fu più permesso loro di svolgere le proprie attività».

Facciamo un passo indietro, al 18 settembre 1938. Benito Mussolini, in una piazza Unità per l’occasione gremita da folle oceaniche, annuncia le leggi razziali. È l’inizio dell’escalation. Dopo il proclama del duce, cominciano le espulsioni dal sistema scolastico: solo a Trieste, vengono cacciati 500 alunni e 50 docenti. Zaccaria è invece colpito in quanto ebreo straniero: appartiene al novero dei corfioti (ovvero gli ebrei greci che a Trieste formano una sorta di comunità nella comunità) e, già dal ’38, si rifugia a Corfù. Diversa è la sorte di chi rimane in città, versando nella stessa situazione. Nel ’39 gli ebrei privi di cittadinanza italiana o che l’hanno ottenuta dopo il 1919 (è il caso degli ex cittadini austriaci) si vedono annullare i passaporti: non si può più scappare. Sempre nel ’39, la Comunità israelitica di Trieste viene commissariata dal regime. Nel ’40 si registrano i primi attacchi fascisti alla sinagoga: negli anni diventeranno via via più violenti. Nel ’42 la Regia prefettura opera una schedatura sistematica degli ebrei presenti nella Provincia triestina: sono 5403, tra “puri” e “misti”. Quando, dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, i nazisti occupano la zona creando l’Adriatisches Küstenland, trovano di conseguenza il lavoro pronto: non hanno che da seguire l’elenco, per mettere in atto i rastrellamenti. I primi arresti avvengono il 9 ottobre, festa dello Yom Kippur. Nello stesso mese è istituito un “campo di detenzione di polizia” nell’ex fabbrica della Risiera di San Sabba. È l’intera geografia della città a essere coinvolta: i nazisti occupano la scuola ebraica di via del Monte e vi insediano un proprio comando. Lo stesso accade in piazza Oberdan. Qui, in un sotterraneo, viene torturato tra gli altri Carlo Morpurgo, segretario della Comunità ebraica negli anni dell’occupazione. Dopo gli interrogatori, da piazza Oberdan di solito i prigionieri sono trasferiti al carcere del Coroneo. Quindi appunto alla Risiera, oppure sui treni diretti oltralpe. Il 7 dicembre, dalla Stazione centrale parte il primo convoglio per Auschwitz-Birkenau.

La deportazione raggiunge invece Zaccaria Chaim, che come abbiamo visto si trova a Corfù, alle cinque di un mattino del giugno ’44. Gli ebrei sono fatti radunare nella principale piazza della città, incarcerati e spogliati dei loro beni. Zaccaria è detenuto per tre o quattro giorni, assieme alla moglie, al figlio piccolo e ad altre duemila persone. Poi la partenza. Dapprima su di una zattera, per raggiungere il continente, e quindi in treno: ventidue giorni a bordo di un vagone piombato; da mangiare solo cipolle e barbabietole e, da bere, un barile d’acqua che non fu mai cambiata durante tutto il viaggio. «Ad Auschwitz gli uomini furono subito separati dalle donne e dai bambini e io fui perciò diviso dai miei familiari, che non rividi mai più», scrive Zaccaria in un libro di memorie. «Io fui adibito ai lavori forzati, che riuscii in qualche modo a sopportare, pur fra stenti e privazioni – prosegue, con prosa asciutta – e dovendo subire varie volte anche bastonature e torture inenarrabili». In un secondo momento è trasferito a Bergen-Belsen. Da qui riesce a fuggire nascondendosi nell’acqua gelida di un pozzo, durante una marcia fuori dal lager, dove le Ss conducono i prigionieri a scavare le fosse comuni. E sopravvive grazie alla solidarietà di alcuni lavoratori italiani in Germania, che lo nascondono in un edificio diroccato. Il giorno della Liberazione, che anche lì arriva in primavera, pesa 35 chili. In seguito si rifà una vita, Zaccaria. Conosce Margherita Matatia, anch’ella vedova e orfana dopo l’esperienza dei campi di sterminio. Nel 1947 decidono di trasferirsi a Trieste, dove nascerà Armando. «Non so come si sia salvata mia madre – afferma oggi Armando, in risposta alle domande degli studenti –. Non ne parlavano mai volentieri. Anche per me leggere queste testimonianze è ogni volta, purtroppo, un’emozione».

Altri non si salvano. Marco Moise Mustacchi, falegname anch’egli di origini corfiote, muore a Dachau nel ’45, poco dopo la Liberazione: circostanza che in seguito permette al figlio Sabatino di riportarne i resti nel cimitero israelitico di Trieste. Saul, Ljuba e Gina Dubinsky sono originari della Russia ucraina, giunti in città in fuga dai pogrom zaristi. Saul diventa custode della scuola Vivante e della sinagoga, che all’epoca esiste ancora in via del Monte. Tutti morti, chi ad Auschwitz, chi in luogo ignoto. Gino Parin è un artista apprezzato, finché nel ’40 il curatorio del Museo Revoltella confina le sue opere in una sala chiusa al pubblico. Viene a mancare a Bergen-Belsen nel ’44. Gisella Haffner, Enrico Löwy, Guido, Carlo e Bice Maestro: per loro luogo e data sono gli stessi, e cioè Auschwitz, 1944. Anche Diamantina Barnestein e Lazzaro Belleli finiscono i propri giorni ad Auschwitz, ma non si sa in che anno.

In memoria delle tredici persone appena nominate martedì saranno installate altrettante Pietre d’inciampo. Saranno presenti l’artista tedesco Gunter Demnig, loro ideatore, e i rappresentanti del Comune. L’appuntamento è alle 10 del 29 gennaio, davanti all’Arco di Riccardo: la cerimonia proseguirà in maniera itinerante fino al pomeriggio inoltrato. Si farà tappa in via del Monte, via Torrebianca, via Filzi, via del Toro, via Palladio, via Petrarca e via Petronio. Tutti luoghi dove le vittime abitano e vivono, prima della Shoah. Prima della guerra, infatti, gli ebrei a Trieste sono 5 mila. Di questi, i più migrano. Un centinaio trova invece la morte in Risiera, dove perdono la vita in tutto circa 5 mila persone: perlopiù oppositori politici e partigiani, italiani, sloveni e croati. Per gli ebrei triestini, infatti, la Risiera rappresenta una tappa, verso Auschwitz e Dachau: sono deportati in più di 700. Tornano in 19. Oggi la Comunità ebraica di Trieste conta quasi 600 iscritti.
 

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