Le testimonianze di viaggiatori sul piede di guerra

 Dieci anni da pendolare da Trieste a Milano, tutte le settimane, in treno. Fa dieci ore alla settimana

Dieci anni. Dieci anni da pendolare da Trieste a Milano, tutte le settimane, in treno. Facciamo due conti: ci vogliono circa cinque ore per andare da una città all'altra. Sarebbero quattro ore e cinquanta, ma facciamo media con i ritardi e diciamo cinque ore: fa dieci alla settimana. Tra ferie e qualche week end in cui per motivi di lavoro non ho fatto su e giù diciamo che ho percorso quel tratto 45 volte all'anno: sono 225 ore, ovvero 9,3 giorni all'anno, 93 in dieci anni. Ovvero ho passato oltre tre mesi all'interno di quelle carrozze spesso sporche, male in arnese, rotte.

Quando ho cominciato ad andare avanti e indietro, nel 1997, c'era ancora un Intercity che partiva da Milano il venerdì alle otto di sera e arrivava a Trieste verso mezzanotte, comodo, per chi lavorava, ma al capolinea eravamo solo quattro gatti. «Lo toglieranno», ho pensato. E infatti. Per andare a Milano partivo il lunedì mattina, un Intercity che quando ho cominciato a usarlo si muoveva alle sei, per arrivare a Milano dopo le undici. A un cambio d'orario sì e uno no, lo anticipavano: cinque minuti, dieci minuti. Partiva sempre prima, ma arrivava sempre uguale, così era più facile che fosse puntuale.

Ogni tanto arrivava qualche fermata nuova, tipo San Bonifacio, tra Vicenza e Verona. Perché? Cosa c'era di così fondamentale a San Bonifacio per farci fermare i treni a lunga percorrenza? Mistero. Capisco che si fermino a Desenzano e Peschiera, che sono sul lago di Garda (ma i turisti dispettosi se ne fregano delle fermate ferroviarie e intasano allegramente la Gardesana con code da delirio, e d'inverno i treni non potrebbero tirare dritti?

Chi ci va sul Garda in febbraio?), ma – di grazia – perché fermare a San Bonifacio?

Poi arrivano i nuovi Eurostar. Miracolo. Per un paio d'anni sembra che tutto debba cambiare.

Treni odorosi di fabbrica, orari che si accorciano (si parte verso le sei e mezzo), fermate che saltano: via San Bonifacio, via Desenzano e Peschiera, per un periodo neppure Brescia (poi le vecchie abitudini ritornano).

La vera goduria, però, è il bonus: Trenitalia vuol dimostrare di essere dalla parte del cliente e se il treno ha più di 25 minuti di ritardo compili un modulo, lo lasci in una cassetta in stazione o lo spedisci assieme al biglietto usato, e dopo un po' ti arriva a casa il bonus equivalente a metà del prezzo pagato. Con quel pezzo di carta puoi solo acquistarci un altro biglietto del treno, è vero, ma per uno che pendola è comunque una grossa soddisfazione.

Nei primi tempi i moduli vengono addirittura distribuiti dal personale di bordo, nelle stazioni ci sono le cassettine gialle con altri moduli, tutto fila che è una bellezza.

Poi i moduli si fanno sempre più rari, le cassettine spariscono, io mi faccio una scorta di fotocopie, ogni tanto ne dò una a qualche passeggero spaesato e gli spiego quel che deve fare: è la mia sorda lotta contro la protervia delle Fs. Ma alla fine vince sempre il più forte: i treni cominciano ad arrivare con «circa 24 minuti di ritardo». Ovvero, forse ne hanno 26 («circa»), ma tu non puoi chiedere il bonus perché i minuti ufficiali sono 24. Spariscono le cassette, spariscono i moduli, spariscono i ritardi.

E le prenotazioni? Ma chi se lo è inventato 'sto sistema informatico? I numeri sono giustapposti per cui se prenoti quattro posti non c'è verso che siano vicini, ma vanno a zig zag, due di qua e due di là del corridoio (esempio pratico: i quattro posti dove sono seduto mentre sto scrivendo queste righe hanno i numeri: 42, 44, 51, 53; i posti sono vicini, i numeri no). Quondi tutto un chiedere: «Posso?», «Le dispiace?». Una volta, ero con i miei figli, un tale mi ha detto di no.

Gli ho fulminato la peggiore delle minacce: «Allora sta lei con i bambini». Ha ceduto immediatamente.

Ma non è tutto qui: il programmatore dev'essere una persona fondamentalmente sola. Invece di creare un sistema che sparpagli i viaggiatori, in modo che siano più comodi se il treno è mezzo vuoto, li ammucchia. Così in un stesso convoglio possono esserci carrozze semivuote e carrozze stipate, inoltre – è accaduto a me – può succedere che in un vagone altrimenti vuoto, le quattro persone che vanno a Trieste si ritrovino sedute tutte assieme in quattro posti appiccicati, così possono parlare di bora, di Barcola, di Carso...

L'ultimo avvenimento epocale è stato l'entrata in servizio, qualche anno fa, degli allora Eurostar city, oggi Frecciabianca. Una completa e totale fregatura, con carrozze degli anni Settanta ricicciate in modo da far stare quattro posti in larghezza dove prima ce n'erano tre (e scommetto che togliendo gli scompartimenti si sono guadagnati posti anche in lunghezza). «Stucco e pittura fan bella figura», ma i vagoni son sempre quelli (anche se l'anno di fabbricazione è stato ricoperto con quello della ricicciatura).

Una volta ho fatto notare a un ferroviere che in uno di questi “Eurostar sóla” da poco entrati in servizio erano già fuori servizio quasi tutti i bagni. «Ma lo sa quanti anni hanno queste carrozze?», mi ha risposto.

In compenso gli Eurostar veri, quelli fighi, i Frecciarossa, li hanno tutti spostati sulla Milano-Roma. Sull'asse Nord-Sud i treni fanno concorrenza all'aereo, su quello Est-Ovest non riescono nemmeno a fare concorrenza all'auto.

E infatti non faccio più il pendolare in treno perché lo vado su e giù in auto. Già se si è in due è più economico che viaggiare in ferrovia e da quando hanno aperto San Passante di Mestre non c'è storia: ci si mette un'ora in meno che usando il treno.

E infine un'ultima, inquietante, domanda: ma perché a Mestre per far cambiare direzione al treno si deve ancora adesso star fermi venti minuti, come quando dovevano esser fatte le manovre per staccare il locomotore vecchio e attaccarne uno nuovo?

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo