Le scarpe “fantasma” eredi della fabbrica Lucky Shoe

Chiuse in una stanza tutelata dalle Belle arti 

la storia

Sandali in cuoio, in pelle, con pietre finte o intarsi, con tacco basso o piatti. Marroni, azzurri o bianchi. Sobri o un po’ più kitch. Non sono calzature in vetrina in un negozio, ma le tante scarpe che, ammassate tra polvere e sporcizia, riempiono il pavimento di una piccola stanzetta del Magazzino 27 bis, ovvero quella parte di edificio vincolata dalle “Belle arti”, antistante al Magazzino 27, da cui è stata divisa anni or sono. Vi si accede attraverso una piccola porta in ferro. Pare facciano parte di un pezzo di storia di Trieste: i ben informati dicono che sono dei “reperti” della fabbrica Lucky Shoe (a cui oggi il birrificio Cittavecchia ha dedicato una bottiglia), che aprì a Trieste nel Magazzino 26 nel 1949 per produrre soprattutto per il mercato americano, rimanendo attiva qualche decina d’anni. Al suo interno vi lavoravano 350 dipendenti, con punte di mille, prevalentemente donne, che chiamavano “le mule della Lucky”, un soprannome che purtroppo non celava nulla di positivo: stava a indicare giovani e meno giovani sottopagate. Ma oltre agli stipendi bassi, la convenienza, si legge nelle cronache dell’epoca, stava anche nel fatto che i dipendenti apprendevano molto rapidamente i compiti a loro assegnati. La base poi si trovava già in porto, quindi rappresentava un’ulteriore facilitazione per i trasporti. Chi vi operava all’epoca racconta che nel Magazzino 26 c’erano tre reparti. Nel primo si tagliava e cuciva a macchina il materiale che veniva incollato nel secondo. Nel terzo infine si confezionava il prodotto da spedire. Si realizzavano una media di mille scarpe al giorno, tra sandali, ballerine e sportive, utilizzando materiali come la rafia.—



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