Le portatrici carniche, eroine misconosciute

Se gli uomini furono gli indiscussi protagonisti della prima guerra mondiale, a partire dai generali più noti fino ai soldati che si scontrarono al fronte, un ruolo fondamentale per le sorti del conflitto lo ebbero anche le donne e, tra queste, alcune figure femminili particolari, molto spesso assenti o che sembrano passare in secondo piano nei libri di storia. E’ il caso delle “portatrici carniche”, eccezionali donne di umili origini che con il loro contributo per mesi e mesi permisero agli Alpini di stanza sulle Alpi Carniche di mantenere le loro posizioni. L’opera delle portatrici carniche si svolse tra il 1915 e il 1917 sul fronte italo-austriaco nell’area definita Zona Carnia, ovvero il tratto che correva dal monte Peralba (sorgenti del Piave) a Montemaggiore (sorgenti del Natisone), comprendente le Valli dell’Alto Tagliamento, del Degano, del But e del Fella.
Tutta questa fascia di territorio, e in particolare il sottosettore Alto But con il passo di Monte Croce Carnico, era considerata una zona di principale importanza strategica; ne è dimostrazione il fatto che alla Bandiera dell’8° Reggimento Alpini qui stanziata venne conferita la medaglia d’argento al valor militare per il coraggio dimostrato nel difendere il possesso di queste importanti posizioni a costo di numerose vite. Due dei sottosettori in cui era divisa la Zona Carnia – il già citato Alto But e il Val Chiarsò – ospitavano un contingente medio di 10-12 mila uomini, che per vivere e combattere necessitava ogni giorno di vettovaglie, nonché di rifornimenti di munizioni, medicinali e materiali per il rafforzamento delle posizioni. La linea del fronte, tuttavia, non era collegata con i magazzini e i depositi militari, dislocati a fondo valle, non essendoci mulattiere o teleferiche che consentissero il transito di automezzi e di carri a traino animale.
Il trasporto dei materiali doveva perciò avvenire a spalla, su strada, impegnando un notevole numero di militari lontano dal fronte e mettendo a rischio l’efficienza operativa delle diverse unità. Il Comando logistico della Zona e quello del Genio furono così costretti - accogliendo un suggerimento in tal senso del curato don Floreano Dorotea (pre’ Florio), molto amato ed ascoltato dalla gente del posto - a rivolgere un appello alla popolazione civile, per sostituire le migliaia di soldati che venivano impiegati come portatori. Nei paesi, i cui uomini validi erano tutti alle armi, furono le donne a rispondere in massa: a Timau e Cleulis, frazioni del Comune di Paluzza, in provincia di Udine, ne vennero rapidamente chiamate a raccolta un centinaio, alle quali in brevissimo tempo se ne aggiunsero molte altre e, sulla scia di quell’esempio, in tutte le località carniche prossime al fronte si formarono folte schiere di portatrici, che arrivarono a superare le 2000 unità.
Questo numeroso gruppo di donne, di età compresa tra i 12 e i 60 anni, diede un supporto insostituibile ai soldati. Inizialmente chiamate "trasportatrici", non vennero sottoposte alla disciplina militare, ma si imposero autonomamente un codice di comportamento ispirato alla fedele e scrupolosa osservanza del gravoso impegno assunto. Vennero munite di un libretto personale di lavoro, sul quale venivano registrati dai militari addetti ai vari magazzini tutti i viaggi compiuti e i materiali trasportati. Ognuna di queste ausiliarie venne inoltre dotata di un bracciale rosso con stampigliato il numero del reparto per il quale lavorava. Tutti i giorni - all’alba, anche se in caso di emergenza potevano essere chiamate a qualsiasi ora del giorno e della notte – le portatrici dovevano presentarsi ai magazzini e depositi disposti a fondo valle, su una estensione di circa sei chilometri; le gerle, svuotate delle messi e dei generi di necessità per casa e stalla, venivano riempite di munizioni, provviste e altri materiali, per un peso che poteva raggiungere i trenta-quaranta chili.

Caricata la gerla in spalla, partivano a gruppi di 15-20, senza apposite guide, e percorso qualche chilometro in fondo valle, cominciavano la scalata alla montagna dirigendosi ogni gruppo, a raggiera, verso la linea del fronte. Le strade battute erano poco note, ma conosciute alle donne perché erano quelle sfruttate per andare a sfalciare l’erba sul versante montuoso. Si trattava di marce massacranti, della durata di alcune ore, su dislivelli che arrivavano fino ai 1200 metri e sotto il costante fuoco delle artiglierie nemiche. I viaggi erano effettuati con qualsiasi condizione atmosferica, all’occorrenza portando ai piedi delle calzature di pezza confezionate in casa, i cosiddetti scarpetz, o degli zoccoli in legno che poco aiutavano quando i versanti montuosi erano ricoperti di neve.
Le donne accompagnavano l’avanzata con preghiere e canti, che nascevano spontanei per vincere la paura provocata da spari e granate. Alcune ne approfittavano anche per lavorare a maglia, con i ferri da calza, a memoria. Quando finalmente giungevano a destinazione, indubbiamente provate dalla marcia, scaricavano la gerla e si concedevano un breve riposo, durante il quale riferivano magari le novità dal paese agli Alpini, in maggioranza di reclutamento locale, e raccoglievano nelle gerle il vestiario che doveva essere lavato. Si rimettevano poi in marcia per tornare a valle, dove le attendevano la cura della famiglia, nonché il governo della casa e della stalla. E il processo si ripeteva uguale il giorno successivo. Non era neanche insolito che, durante il viaggio di ritorno, venisse chiesto alle portatrici di trasportare le barelle dei militari feriti o caduti in combattimento. I feriti venivano poi indirizzati con le ambulanze agli ospedali da campo, mentre i morti venivano seppelliti nel Cimitero di guerra di Timau, in fosse scavate dalle portatrici stesse. Ogni viaggio veniva compensato con una lira e cinquanta centesimi, pagate una volta al mese, ma va detto che la maggior parte delle portatrici era mossa dall’amor di Patria.
Ad ulteriore riprova di questa dedizione vale la pena menzionare gli avvenimenti del 26 e 27 marzo 1916, quando, durante i violentissimi attacchi nemici che portarono alla perdita del Pal Piccolo e alla sua sofferta riconquista, le donne di Timau chiesero agli artiglieri di poter dare il loro contributo servendo ai pezzi di artiglieria, e persino di essere tutte armate di fucile. Pur non concretizzatosi, il loro gesto rincuorò i combattenti, suscitandone l’ammirato riconoscimento. Vista la zona in cui operavano, le portatrici vivevano una situazione di costante pericolo. Sono diverse, infatti, le donne rimaste ferite nell’adempimento dei loro compiti. Una di queste, Maria Plozner Mentil, di 32 anni, madre di quattro bambini e con il marito combattente su un altro fronte, giunta con il suo carico fino alla Casera Malpasso, sopra Timau, il 15 febbraio 1916 fu colpita a morte da un cecchino austriaco. Soccorsa, venne trasportata dagli Alpini a valle nell’ospedaletto da campo di Paluzza, nella vana speranza di salvarle la vita.
La salma fu sepolta nel cimitero di Paluzza, per poi essere traslata nel 1937 nel Tempio Ossario di Timau, accanto a quelle degli oltre 1700 soldati caduti combattendo sul fronte sovrastante. L’ammirevole contributo di queste donne fu interrotto nell’ottobre 1917 quando, dopo lo sfondamento a Caporetto, le truppe del fronte carnico, che fino a quel momento avevano difeso strenuamente le loro posizioni, furono costrette a ritirarsi per non essere prese alle spalle. Assieme ai soldati, anche le portatrici finirono profughe in Patria, dovendo abbandonare le proprie case per non cadere in mano nemica dopo tanti sacrifici. Per quanto la vicenda delle portatrici carniche non sia forse tra le più note al grande pubblico, è bene sottolineare che non è rimasta completamente misconosciuta. Innanzitutto a livello nazionale, visto che nel gennaio del 1969, il senatore friulano Giulio Maier, di Paluzza, presentò al Senato della Repubblica un disegno di legge - divenuto poi legge nel 1973 - affinché venissero estesi anche alle portatrici i benefici previsti per i combattenti della guerra del 1914-18, ovvero la concessione del Cavalierato di Vittorio Veneto, della medaglia ricordo in oro e dell’assegno annuo vitalizio.
Ma un segno di riconoscimento per queste donne si ebbe a livelli più locali già prima, nel 1956, quando venne intitolata a Maria Plozner Mentil la caserma degli Alpini di Paluzza, unica in Italia a portare il nome di una donna. Nel 1975, Sabaudia, località in provincia di Latina dove emigrarono, in epoca fascista, numerosi friulani e carnici rimasti sempre fedeli alle tradizioni alpine della loro gente, le eresse un monumento tratto da un masso proveniente dal luogo dove fu colpita a morte, e nel 1992, a Timau, venne dedicato a lei e alle altre portatrici un analogo monumento in bronzo. Ancora, nel 1997, grazie all’impegno e all’iniziativa dei membri dell’Associazione "Amici delle Alpi Carniche" di Timau, l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si recò nel paesino carnico per una cerimonia celebrativa delle portatrici, nel corso della quale appuntò di persona al petto della figlia di Maria Plozner Mentil, Dorina, la medaglia d’oro al valor militare conferita in memoria alla madre. L’ultima portatrice carnica, Lina Della Pietra, nativa di Zovello, una frazione del comune di Ravascletto, in provincia di Udine, è scomparsa nel novembre 2005, all’età di 104 anni.
*studentessa della Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori a Trieste
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